Nella foto: don Giovanni Ferro. Foto di ©PCB

Don Giovanni Ferro – per 44 anni missionario in Germania ed ex direttore del Corriere d’Italia, rientra in Italia

Don Giovanni Ferro sei stato direttore del Corriere d’Italia dal 1989 al 1992, collaboratore dal 1992 al 1995 e anche recentemente hai collaborato con diversi articoli. Che cosa ricordi di quegli anni alla guida del CdI?

Ero subentrato in un momento di emergenza. Il nostro delegato di allora, Luigi Petris, era alla ricerca di un sostituto di quel grande direttore che è stato Corrado Mosna. Io dissi a Petris: “non sono neanche giornalista”, lui insistette e io presi l’incarico di direttore del Corriere. Allora imparai intensamente dai collaboratori usando delle loro competenze: leggevo moltissimo e appresi come si scrive e su cosa si scrive. Erano quelli gli anni in cui stava cambiando il mondo, l’Europa di fine anni ‘80. Ricordo giornalisti del Corriere della Sera che ci telefonavano in redazione, chiedendoci che cosa stesse succedendo in Germania: “Si parla di unificazione tedesca?”. E io dissi di sì. Qui lo vedevamo da vicino, e in quel momento la mia risorsa di friulano, di casa accanto all’allora Jugoslavia, era una finestra interessante sui paesi dell’Est in genere che mi permise di scrivere cose interessanti per contiguità di eventi: la riunificazione tedesca, il disfacimento dell’Unione Sovietica, l’incombente guerra nei Balcani. Ciò rese il nostro giornale forse meno culturale e sociale, sulle cronache un po’ più politico.

Facciamo un passo indietro e guardiamo a un altro avvenimento che si intreccia con la tua biografia, il Concilio Vaticano II. Anche sul CdI abbiamo ricordato i sessant’anni dall’inizio del Vaticano II. Tu sei diventato sacerdote nel 1968. Come hai vissuto quel periodo di grandi cambiamenti nella Chiesa?

Quando divenni sacerdote stavano entrando in vigore diverse riforme sul campo. Mi ricordo di avere celebrato l’Eucarestia per la festa nel mio paese, quando ancora non erano state adottate nel dettaglio le grandi novità della riforma liturgica e quindi celebrammo in latino, come da secoli. Sono nato come sacerdote in questo travaglio e come giovane ero entusiasta, vedevo l’orizzonte che si allargava. Figlio di un’epoca di sacerdoti con l’emblema di eternità; soltanto quindici anni dopo l’affanno mi era evidente: nella mia diocesi diventammo sacerdoti in una quindicina e allora eravamo già rimasti una minoranza, perché alcuni miei confratelli, con vicende diverse, avevano perso l’eternità del loro sacerdozio. Questo mi segnò fra coloro che restavano sul campo e coincise con l’epoca in cui io avevo scelto di venire in emigrazione in Germania. Sono sacerdote da 54 anni e ho vissuto cicli che si sono scavalcati gli uni con gli altri, stagioni contraddittorie.

E qual è comunque il filo conduttore di tutte queste stagioni?

Il filo conduttore è la fortuna di avere avuto abbastanza Spirito Santo che mi ha aiutato a restar fedele nella mia fede. Mi considero un cristiano con lo sguardo rivolto alla speranza nel nuovo restando fedele a quella scelta di gioventù.

Perché hai scelto di studiare psicologia?

Mi ero accorto di essere ignorante in troppe cose e che non bastava essere sacerdote per capire la gente e abbisognavo dell’approccio di altre scienze umane. Avevo scoperto che non si poteva andare avanti solo a dogmi, come cristiano fra cristiani, ma che bisognava utilizzare ciò che le scienze ci hanno insegnato. Mi sono accorto che gli studi psicologici erano una specie di occhiali messi a fuoco su altre cose. Avevo intuito che questi studi andavano bene per me, nonostante il sospetto dei superiori. La psicologia mi ha reso molto più prudente, così imparai che davanti ai misteri della vita lo psicologo in me correggeva il prete e il prete correggeva lo psicologo.

Che cosa ti ha portato in Germania?

Fu un puro caso. Completai a Padova gli studi di psicologia iniziati a Roma. Lì trovai un professore che mi consigliò il tema omosessualità, allora tabù, per la tesi di laurea. Completai gli studi presso la Ruhr-Universität di Bochum, un’università vivace, democratica, aperta al mondo; e presso la diocesi di Essen, di fondazione recente, che aveva una grandissima socialità e sapevo essere frequentata da sacerdoti e migranti italiani. Così approdai al mondo dell’immigrazione.

Sei in Germania da 44 anni di immigrazione. Sei sempre stato molto vicino alla gente di emigrazione. Hai visto trasformarsi questo Paese e oggi ti colpisce molto la povertà, hai detto più volte. Quale povertà?

La Germania allora era per molti un mito culturale, un paese a benessere diffuso, di una certa perfezione in tutto, come noi in Italia non avevamo. Rimasi in una Germania molto consapevole della democrazia, dell’ordine e in quotidiana tensione fra un Est e un Ovest, che presto vidi trasformarsi. Forse distratto dai miei studi non avevo visto allora i poveri sradicati. La Germania abbondava di tanti sacerdoti a disposizione, molte città e cittadine erano provviste di un buon servizio ecclesiale e così mi integrai nel servizio delle missioni per migranti. Però negli ultimi 8-10 anni ho visto l’esplosione di una povertà stratificata e complessa. Questo patrimonio di povertà che gli italiani si portavano e si portano da casa, viene aggravato dalla loro improvvisazione nel migrare e dalle crisi della coniugalità, onnipresente anche terra tedesca, ai danni soprattutto di moltissime giovani donne, amate, disamate e infine abbandonate in questo mondo “multikulti”. E ho visto povertà appesantirsi di ulteriori povertà. Vivo molto la zona d’ombra di questo fenomeno di cui mi sono occupato assiduamente negli ultimi anni, mentre la grande politica parla troppo facilmente di integrazione come mito, di multiculturalismo, di dialogo fra le religioni, ma la realtà è più complessa e fragile; crea sofferenza, solitudine e disorientamento.

Sei a Leverkusen da una decina d’anni, prima eri a Gummersbach nell’Oberbergische Land e prima ancora a Francoforte, dove, prima di diventare direttore del CdI, è avvenuto un episodio grave che ha segnato la tua vita. Vuoi dire qualcosa?

Al centesimo giorno della mia presenza presso la Missione Cattolica Italiana di Francoforte sul Meno, gennaio 1980, accadde qualcosa: un nostro assistito mi inflisse una ventina di coltellate. Il grande Klinikum con i suoi chirurghi mi recuperarono alla vita dopo essere stato a lungo in rianimazione. Attraverso questa esperienza ho imparato a vedere la fragilità di tutto e a capire che niente è prevedibile. Ho compreso che c’era molta patologia anche in questo mondo dell’emigrare, perché chi mi aveva quasi ammazzato era un povero diavolo, anche se di per sé non era un povero di denaro ma un caso di fuga dall’Italia. Allora avevo 37 anni, ero giovane e forte e il mio organismo mi aiutò, anche se la nostra Chiesa mi lasciò piuttosto solo con questo dramma: perché essa è fatta di santi ma anche di esseri umani.

Della Chiesa hai sempre avuto uno sguardo di attenzione all’ecumenismo. Nel maggio 2021 hai partecipato a un incontro online della Delegazione Mci, su esperienze di ecumenismo in Italia in occasione dell’Ökumenische Kirchentag. Forse la tua origine friulana, terra di confine ti ha resto più attento anche all’ecumenismo, a guardare cosa fanno i fratelli evangelici qui in Germania?

Sono figlio di una terra qualsiasi in Italia, di cui non faccio un mito, ma è una piccola patria con un profondo senso di identità culturale. Ha avuto per secoli collegamenti con ciò che era la grande Austria e la Repubblica Veneta. I giovani del posto trovavano lavoro in Austria, Ungheria e Romania. La mia diocesi di Udine confina ad Est con la Slovenia, allora Jugoslavia, e a Nord con l’Austria. In questo crocevia si parlano quattro lingue: italiano, sloveno, tedesco e retoromanzo friulano, la mia lingua madre. Per me essere ecumenici era normale. Avevo bisogno di spalancare le finestre sul resto del mondo e scoprii in quegli anni che il mio “santo” era un germanico, fra l’altro protestante, uno che mi aiutò anche a ripensare il mio sacerdozio: Dietrich Bonhoeffer e la sua ipotesi sul futuro del cristianesimo.

Alla luce di queste considerazioni, come vedi il Synodaler Weg?

Sì, lo vedo come un grande momento. Però mi dà un po’ di ansia perché è una specie di salto mortale che riesce bene solo ai grandi disposti alla necessità del nuovo. E allora mi viene un brivido perché l’ho visto anche nel ‘68, era una grande cosa il ’68, stava cambiando tutto, nella Chiesa, nella famiglia, nella scuola, ma poi si è spappolato in alcune cose anche devianti, erano gli anni in cui nasceva fra l’altro il terrorismo. Hanno dato l’alibi a chi voleva che il mondo restasse così com’era dicendo “Vedete dove andiamo a finire?”. Quindi l’esplosione di un movimento del genere mi fa chiedere se funzionerà o meno. In ogni caso, mi dispiace vedere come nel mondo italiano non si capisca nulla di questo cammino ecclesiale tedesco. Mi fa tristezza vedere vescovi e cristiani che non si sono accorti che il mondo è diventato un altro.

Don Giovanni stai lasciando la Germania per rientrare nella tua diocesi, hai già preso contatti? Che cosa farai?

Non so ancora esattamente quando, forse prima di Natale, vorrei rientrare quando posso essere utile. Noi sacerdoti italiani in Germania siamo diventati ormai un piccolo gruppo e sono uno degli ultimi di quell’epoca in cui noi sacerdoti italiani eravamo presenti ovunque. Quindi al momento di questa intervista sono un po’ con un piede in Italia o un piede qui, perché mi ripetono che qui c’è bisogno. Quando rientrerò in Italia nella mia terra non starò in poltrona a leggere libri ma farò la scelta per i poveri. Nelle zone di montagna, fatte di moltissimi piccoli paesi, il sacerdote è scomparso e vorrei fare il sacerdote, usando un termine in modo benevolo, un po’ da tappabuchi. In questa situazione di diffusa emergenza andrei lì e sono contento che lo Spirito Santo mi ha aiutato nella vita a non fare carriera e così sono sereno.

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