La moda può essere un campo di battaglia, una tela, o il più potente strumento di autodeterminazione. Lisa Rovesta, esperta di mode e costumi della società, specialista in brand e tendenze, lo dimostra con lucidità nel suo nuovo saggio, „Fashion Outsider“ (Oligo). Il libro è un affascinante atlante di figure iconiche – da Coco Chanel a Salvador Dalì, da Frida Kahlo a Madonna – che hanno trasformato il proprio stile in un atto di ribellione e innovazione, lasciando un’eredità che va ben oltre il semplice trend
Rovesta ci guida attraverso storie di audacia estetica, mostrandoci come queste icone abbiano sfidato il loro tempo, usando abiti e portamento per riscrivere le norme sociali e artistiche. Ma non è solo l’alta moda a catturare la sua attenzione: l’autrice, che cura la rubrica „Stili Umani“ per Panorama.it e ha già pubblicato una trilogia dedicata alle dinamiche umane (tra cui Umanistili e una ballerina sulla luna), sa bene che il vero racconto si annida nei dettagli, nelle sfumature della società e persino nell’evocazione di un profumo, capace di racchiudere storie e amicizie leggendarie, come quella tra Misia Sert e Coco Chanel.
Abbiamo avuto il piacere di incontrare Lisa Rovesta per parlare di ribelli, di brand come estensioni dell’anima e di come, in un mondo ossessionato dalle tendenze, la cosa più out e rivoluzionaria da fare sia rimanere assolutamente outsider.

La moda è un sistema che tende a includere chi ha successo: qual è stata la ’scintilla‘ per raccontare l’outsider come figura centrale e qual è il suo status nel mercato editoriale attuale?
Nel mio libro Fashion Outsider parlo di mode e di costumi sociali che, nel corso delle epoche, sono stati modificati da personaggi che definisco “fashion outsider”, cioè al di fuori delle mode. Figure come Truman Capote, Yves Saint Laurent o i fratelli Castiglioni hanno avuto successo e notorietà, ma soprattutto un seguito che ne ha riconosciuto il genio e le capacità. Sono outsider perché si collocano oltre le mode: le rompono, le superano, e si impongono nel panorama contemporaneo del loro tempo con talento e personalità forti. Quanto allo status nel mercato editoriale, sinceramente non saprei: dipende da molti fattori. Ma di certo questi personaggi non si preoccuperebbero di uno status — lo romperebbero, come hanno fatto ognuno nel proprio ambito.
L’indice del libro spazia da figure visive (Frida Kahlo, Fornasetti) a figure della scrittura (Irene Brin) e del design (fratelli Castiglioni). Qual è il filo rosso che ha unito mondi così diversi e perché, ad esempio, una figura di nicchia come Betty Catroux è stata selezionata accanto a icone pop come Madonna?
I personaggi che porto nel mio libro appartengono a contesti diversi: arte, scrittura, design, musica. Mi interessava raccontare aneddoti, amicizie e relazioni che hanno caratterizzato le loro vite e il loro contesto, ma che al tempo stesso sono diventati fonte di ispirazione reciproca. Il filo rosso che li unisce è la coerenza con la propria visione: sono persone che non si sono mai tirate indietro rispetto al loro modo di essere. Ognuno lo ha fatto in modo diverso — Irene Brin, per esempio, attraverso l’ironia e gli pseudonimi con cui firmava i suoi scritti; Betty Catroux, invece, è stata per Yves Saint Laurent una figura fondamentale, una spalla, una musa, un alleato. Mi piaceva accostarla a icone pop come Madonna proprio perché, al di là delle differenze, le accomuna la capacità di rompere gli schemi portando nel mondo un messaggio che unisce bellezza, identità artistica e identità personale.
Se l’outsider sfida l’elitarismo, come può la divulgazione attraverso un libro come Fashion Outsider contribuire a smantellare l’aura di inaccessibilità che ancora circonda il settore della moda e del design?
Fashion Outsider non nasce con l’obiettivo di smantellare l’aura di inaccessibilità che circonda certi mondi, ma di portare alla luce personalità forti, autentiche, spesso in contrasto con un elitarismo che privilegia il conformismo più dell’identità. Molte volte, infatti, si segue una moda senza interrogarsi su ciò che l’ha generata. Prima di ogni tendenza, di ogni gesto contemporaneo, c’è stato qualcuno che ha aperto la strada. Se Truman Capote non avesse scritto A sangue freddo, chissà se oggi esisterebbe il “long journalism” o il romanzo giornalistico basato su un fatto di cronaca nera. Se i fratelli Castiglioni non avessero inventato la lampada Taccia, quale direzione avrebbe preso il design? Spesso vediamo una lampada, leggiamo un libro o osserviamo un abito di Saint Laurent senza accorgerci che dietro ci sono una storia, una cura, uno studio, una devozione. Anche figure come Bettie Page, con le loro scelte personali, hanno sfidato il perbenismo per affermare la propria identità. Questi personaggi irrompono, ispirano e mettono punti fermi sui quali poi si costruisce. Lo fanno in vari settori della vita: nell’arte, nella scrittura, nella musica, nella moda.
Oggi lo stile è dettato da micro-trend che si esauriscono in poche settimane. Qual è, secondo lei, il ‚costituto molecolare‘ di uno stile personale che permette a un personaggio di superare tre decenni di mode?
La mia è una risposta del tutto personale e soggettiva, senza alcuna pretesa di verità universale. Penso che oggi viviamo in un’epoca dominata dalla velocità: i social hanno contribuito a renderci sempre più abituati a comunicare per hashtag, per frasi brevi, per sintesi immediate. Tutto è rapido, sommario, spesso privo di approfondimento. Al contrario, i personaggi di Fashion Outsider hanno dedicato tempo, cura, approfondimento e passione a ciò in cui credevano. Oltre al talento e allo stile personale, hanno compiuto scelte coraggiose — spesso inevitabili, secondo la loro natura — ma sempre coerenti con sé stessi. Forse oggi, invece, tendiamo ad allontanarci da noi stessi: per un pugno di like, per compiacere, per apparire. Eppure, lo stile vero, come la creatività autentica, non nasce dal compiacimento, ma dal dare: dare al mondo qualcosa di nostro, che può essere un pensiero, un gesto, un messaggio artistico o intellettuale capace di arrivare alle persone.
Molti dei suoi personaggi hanno un ‚gesto d’autore‘ (la frangetta di Bettie Page, il cavallo bianco di Bianca Jagger): lo stile è un insieme di dettagli casuali o una costruzione consapevole basata su un singolo ‚marchio di fabbrica‘?
Rispondendo a questa domanda la mia mente va all’estremizzazione di quello che viene definito: personal brand. Un concetto oggi centrale ma forse un po’ esasperato. A certi livelli rischia di generare un’uniformità di comportamenti, di linguaggi, di atteggiamenti. I miei outsider, invece — da Bettie Page con la sua frangetta al cavallo bianco di Bianca Jagger — avevano sì dei segni distintivi, dei simboli, ma sempre autentici. Forse c’era anche la volontà di colpire, di emergere, ma mai per seguire una regola imposta: non perché lo dicevano i manuali o le strategie di marketing, ma perché le loro scelte nascevano da un impulso interiore. In loro il “fuori” era coerente con il “dentro”. E credo che questa sia la differenza più grande tra l’autenticità e la costruzione.
In un mondo dominato dai filtri estetici, l’autenticità dello stile personale è forse la sua imperfezione, il suo ‚difetto‘? Quanto l’errore o la stranezza contribuiscono a creare l’unicità dell’outsider?
Va detto che oggi anche l’errore o la stranezza sono spesso — non sempre, ma molto spesso — studiati e costruiti per creare una caratterizzazione del personaggio. Un outsider, invece, per come lo intendo io e per come ne parlo nel libro, vive tutto questo come parte autentica di sé. Ciò che può essere comunemente considerato un difetto o una stranezza, per loro diventa un tratto identitario, un segno distintivo. Probabilmente ciò che agli occhi degli altri appare “fuori norma”, per un outsider è una forma di normalità, persino di forza. È sempre qualcosa di profondamente legato alla personalità, alla propria identità, non a una costruzione esterna.
Quando si parla di ribellione nella moda, dove si traccia la linea tra la ‚provocazione usa e getta‘ e l’innovazione strutturale che ha cambiato la silhouette, come nel caso di Rosa Genoni contro il corsetto?
Probabilmente la provocazione usa e getta è una provocazione fine a sé stessa: dura il tempo di una storia su Instagram o di una notizia che scompare dopo pochi minuti. È un po’ ciò che diceva Andy Warhol: le persone sono disposte a tutto per un quarto d’ora di notorietà. Un’innovazione strutturale, invece, come nel caso di Rosa Genoni, nasce da un principio profondo. Rosa Genoni — giornalista, attivista e sarta — non è stata l’unica ad abolire il corsetto, ma l’ha fatto in un momento storico in cui quel gesto in Italia era rivoluzionario. Partiva dall’idea di liberare la bellezza da una costrizione, e la frase che scrivo nel libro — “la bellezza non ha bisogno di costrizioni” — è in fondo un riassunto di tutti i personaggi di Fashion Outsider. Perché per bellezza non intendo solo quella estetica, ma una forma più ampia di libertà interiore e creativa.
L’audacia creativa è spesso solitaria: i suoi outsider hanno dovuto fare i conti con un ‚isolamento intellettuale‘ pur di portare avanti la loro visione, e qual è il rischio di questa solitudine oggi?
Sì, alcuni dei personaggi del libro hanno conosciuto una forma di isolamento intellettuale. Penso a Bettie Page: per l’epoca in cui ha vissuto e per l’attività che svolgeva — provocatoria, provocante — è stata oggetto di pregiudizi. Eppure, nonostante l’isolamento, molti di loro avevano una forte volontà di condividere la propria visione. Penso anche a Rudolf Nureyev che, quando rifiutò di tornare in Russia visse una grande solitudine ma trovò in Margot Fonteyn un’amicizia e un sodalizio artistico fondamentali. Nureyev diede alla danza classica un respiro più ampio, diventando un catalizzatore di interessi. Oggi invece credo che la solitudine sia più interiore: una solitudine conversazionale, fatta di scambi rapidi e superficiali, che impoverisce il confronto e che si riflette sulla possibilità di ampliare la propria visione del mondo.
Dato che l’innovazione nella moda è oggi rapidissima e spesso legata alla sostenibilità, l’approccio ‚lento‘ e atemporale di un designer come Fornasetti ha ancora un valore o l’innovazione è ormai inscindibile dalla velocità di consumo?
Del designer Fornasetti mi affascina quella vena di romanticismo che attraversava la sua arte: la sua passione era profondamente condizionata da un amore platonico, quello per Lina Cavalieri, che lui considerava la donna più bella del mondo.
Per quanto riguarda l’innovazione, certamente ha un valore, ma — mi si conceda il gioco di parole — anche i valori hanno un valore nell’innovazione.
Le coppie creative che lei racconta (Schiapparelli & Dalí, YSL & Catroux) erano spesso dinamiche complementari. Quanto è stata fondamentale la figura del ‚catalizzatore emotivo o surreale‘ per permettere al genio di esprimersi con audacia?
Per alcuni dei personaggi che descrivo in Fashion Outsider, è stata fondamentale la figura del catalizzatore emotivo o surreale. Si pensi, ad esempio, a Coco Chanel, che trovò un grande sostegno nell’amica Misia Sert: fu lei ad aiutarla a superare un periodo molto difficile, restituendole la forza creativa e la voglia di proseguire nella sua attività. O al sodalizio tra Salvador Dalí ed Elsa Schiaparelli, che insieme hanno infranto gli schemi estetici e culturali del loro tempo. Schiaparelli e Chanel, pur diversissime e in costante disaccordo, rappresentano due forme diverse di genio creativo. E credo che per molti outsider l’incontro con un “altro” capace di stimolare, sostenere o persino contrastare sia stato essenziale per generare opere rivoluzionarie.
La non conformità ha un prezzo: in che modo le figure di Irene Brin (con la sua ironia tagliente) o Truman Capote (con la sua controversa delicatezza) hanno gestito il giudizio della società per le loro scelte stilistiche e narrative?
Maria Vittoria Rossi, in arte Irene Brin, che spesso scriveva sotto diversi pseudonimi, ha avuto grande audacia e coraggio, ma anche il sostegno di figure di spicco come Leo Longanesi. Non so dire con esattezza in che modo lei, o una figura altrettanto controversa come Truman Capote — con la sua complessa vita interiore — abbiano pagato il prezzo della non conformità. Credo che, per comprenderlo, bisognerebbe valutare quanto la loro libertà di espressione, la loro ricerca e la loro capacità di portare generi nuovi in contesti che ancora non li prevedevano, abbiano influito sulla loro percezione di sé. Forse hanno conosciuto il pregiudizio, ma anche la soddisfazione profonda di vedere le proprie opere come un’estensione autentica della propria personalità.
Se un tempo l’emancipazione passava per l’eliminazione del corsetto, qual è l’attuale ‚corsetto sociale‘ che la moda outsider sta cercando di sfilare nel contesto dei movimenti identitari e di inclusione?
La parola inclusione la sentiamo ripetere spesso — e a ragion veduta — ma presuppone che qualcuno includa qualcun altro “nonostante” una differenza. C’è quindi un includente e un incluso. Gli outsider di cui parlo io, invece, non si ponevano nemmeno il problema di includere o di essere inclusi: vivevano con fascino e curiosità tutto ciò che il mondo poteva offrire ai loro occhi e alla loro formazione. Certo, anche loro — per motivi diversi — hanno avuto bisogno di un’accettazione sociale, ma è arrivata in modo naturale, perché ciò che offrivano era autentico e arricchente: cultura, arte, musica, moda. Ciò che era fuori dal loro mondo lo guardavano con interesse, con curiosità e con fascinazione.
Invece dell’equilibrio, quale personaggio del suo libro rappresenta la dissonanza più potente e necessaria tra stile e contesto sociale, e perché?
È difficile per me dare una risposta precisa, perché credo che ognuno dei personaggi di Fashion Outsider rappresenti, a suo modo, una dissonanza potente e necessaria tra stile e contesto sociale. È proprio questa dissonanza a renderli unici. Spesso si parla di equilibrio quando ci si riferisce a un insieme di abitudini o di aspettative sociali; ma chi porta avanti una visione diversa, chi mantiene viva la propria dissonanza, non è privo di equilibrio — semplicemente lo ridefinisce. L’outsider non è chi si oppone, ma chi resta coerente con la propria visione anche quando non coincide con quella del mondo. Il non essere scontati, per loro, non significa essere incoerenti: significa, piuttosto, restare fedeli a una forma di verità personale.
È possibile definire la moda outsider come un ossimoro? Ovvero, può un atto di ribellione contro il sistema diventare, per definizione, parte del sistema non appena viene accettato dal pubblico o dal mercato?
Può esserlo, sì — quando alla base c’è un valore autentico, capace di durare nel tempo, al di là delle mode e delle tendenze. Ed è proprio per questo che io li definisco outsider: perché il loro gesto, quando viene accolto dal sistema, mantiene intatta la sua essenza unica.
Se dovesse distillare il coraggio degli outsider in una singola lezione pratica per un lettore che vuole iniziare a sviluppare la propria estetica, quale sarebbe il primo ‚atto audace‘ che consiglia di compiere?
Il primo atto audace —che credo consiglierebbe uno dei miei personaggi — è quello di fregarsene completamente di tutto ciò che appare persuasivo o imposto. Dimenticare i dettami, le palette obbligatorie, gli algoritmi, le frasi da manuale, le parole “ipnotiche” suggerite dai manuali. Per sviluppare la propria estetica — e, ancora prima, la propria personalità — bisognerebbe partire da una domanda semplice, quasi disarmante: “Ma tu, in fondo, cosa vuoi?”




























