Intervento di Lisa Mazzi© al Convegno di Acli Germania e Delegazione MCI Germania “Frontiere in movimento”. Scrittrice interculturale, em docente di Scienza delle traduzioni, Università del Saarland
”Man mano che nella donna penetra il senso dell’autonomia si accresce anche il senso di disagio in cui versa e s’intensifica il desiderio di uscirne. L’emigrazione dunque si presenta come il mezzo più idoneo perché essa equivale ad un atto di indipendenza.” (Francesco Coletti, statistico economista 1911)
La presenza femminile in contesto migratorio si rifà a due periodi storici antecedenti all’accordo bilaterale del 1955: la fine dell’Ottocento e il Ventennio fascista.
La mobilità femminile degli anni ’70: progetti di libertà e autonomia.

Il convegno di oggi (18 ottobre) sottolinea in tutti i suoi interventi l’importanza dell’accordo bilaterale del 1955 tra l’Italia e la Repubblica Federale di Germania ma, dovendo parlare della presenza femminile in contesto migratorio, dobbiamo rifarci a due periodi storici antecedenti. La migrazione basata sui trattati bilaterali del 1955 era infatti una migrazione prevalentemente maschile e la forza lavoro proveniva per la maggior parte dal Sud Italia.
Quindi, se vogliamo parlare di donne migranti di ieri e di oggi, dobbiamo fare un passo indietro, anzi due, partendo dalla fine dell’’800 e passare poi brevemente all’epoca fascista prima di toccare gli aspetti più recenti, perché in queste due fasi la presenza femminile è stata molto elevata.
Parlando di emigrazione un’osservazione molto importante è quella che riguarda le differenti motivazioni che hanno portato alla decisione di emigrare. Per gli uomini partire significava andarsene per procacciarsi il pane e da questa prospettiva si deve convenire che il loro potere decisionale era molto ridotto. (Partenza come sinonimo di sopravvivenza per se stessi e le loro famiglie). Nel caso delle donne, pur essendo sempre presenti i fattori macroeconomici, l’emigrazione può venir considerata anche da un altro punto di vista, e cioè come una scelta. La partenza dunque vista come possibilità di fuga, di rottura di vincoli, nata da una volontà e alle volte dall’impossibilità di fare diversamente. Per es. la rottura di vincoli e legami convenzionali come la comunità, il matrimonio o la famiglia stessa.
E proprio in questa prima ondata migratoria di un lontano ieri troviamo molte affinità con la migrazione femminile iniziata dagli anni ‘70 del Novecento in poi. Certo a fine ‘800 le donne erano coraggiose, ma non solo. Essendo state abituate fin da bambine a correre rischi e sopportare fatiche, potevano affrontare qualsiasi tipo di difficoltà. L’emigrazione di fine ‘800 verso la Germania proveniva soprattutto dalle regioni di confine del Nord Italia, cioè dal Friuli, dall’alto Veneto e dal Trentino Alto Adige. Le regioni che più offrivano lavoro erano la Baviera e il Baden Württemberg, sia per la maggior vicinanza geografica, sia per la tipologia delle industrie. Già alla fine dell’800 si apprezzavano molto l’agilità manuale e la destrezza delle dita svelte delle italiane nelle aziende tessili prima e nella fabbricazione degli orologi, che sorsero in quel periodo nel BW – si pensi ad esempio ai famosi orologi a cucù della Foresta Nera. Purtroppo le ragazze, perché spesso si trattava di donne molto giovani, venivano considerate talvolta poco affidabili e poco pulite (flüchtig und schmutzig), ma quello che più importava era il fatto che fossero volonterose e costassero poco, (billig und willig). In Baviera il lavoro più diffuso per donne e purtroppo spesso anche per le bambine che venivano affidate a dei procacciatori di lavoro dagli stessi genitori in stato di grande miseria, era quello nelle fornaci. Questo lavoro, considerato “stagionale” durava 10 mesi all’anno e veniva svolto in condizioni davvero catastrofiche per la fatica estenuante dei turni, gli alloggi insalubri e la cattiva nutrizione delle lavoratrici. Quello che importa sottolineare in questa fase è il fatto che le donne già a partire dal 1890 arrivavano nel Sud della Germania come lavoratrici stabili e non come mogli al seguito del marito. Soprattutto nell’industria tessile erano possibili contratti anche biennali e addirittura triennali. Non essendo un’occupazione di tipo stagionale, permettevano un miglior inserimento nella vita sociale del luogo di lavoro. Maggiori problemi si potevano trovare invece nelle fornaci di Monaco, dove il lavoro era molto più estenuante, trattandosi di fatica fisica nella fabbricazione e spostamento dei mattoni, sia perché venivano impiegate lavoratrici di età veramente molto giovane sia perché le condizioni degli alloggi e del vitto previsti erano veramente terribili, come testimoniano articoli di giornali e rapporti consolari dell’epoca.
Se si considerano i dati dell’emigrazione dei minori sotto i 14 anni di età si osserva che la presenza femminile tra il 1876 e il 1882 era il quadruplo di quella maschile, mentre tra il1900 e il 1905 pur essendo in calo, rimase il doppio di quella maschile. Riguardo al lavoro stagionale le ragazzine provenienti dalle zone alpine alternavano la vendita dei gelati in estate a quella delle castagne in autunno e inverno. Secondo il rapporto annuale degli ispettori di fabbrica del Granducato del Baden nel 1901 risultavano occupati nelle fabbriche 415 bambini di età inferiore ai 14 anni di cui 99 maschi e 316 ragazze. La studiosa svizzera Ina Britschgi Schimmer in una sua ricerca rilevava che tra il 1890 e il 1910 la manodopera italiana femminile in Germania ebbe un incremento notevole arrivando nel 1910 a 4.447 unità. Nel 1910 le bambine emigrate sotto i 15 anni erano ben 25.597, il numero più alto mai raggiunto. Sempre in questo periodo il regio console italiano di Francoforte menzionava nel suo rapporto sulla presenza femminile l’industria di giocattoli di gomma fondata a Ginnheim dall’italiano Luigi Fortuna, nella quale “Impegna molte ragazze delle province meridionali del regno, affidategli dalle famiglie”. Il problema migratorio preoccupava sia lo Stato che la Chiesa. Nel 1901 fu istituito il Commissariato generale per l’emigrazione alle dipendenze del MAE (Ministero degli Affari Esteri). Dal canto suo la Chiesa grazie all’impegno di due vescovi san Giovanni Battista Scalabrini di Piacenza e Geremia Bonomelli di Cremona iniziò ad avere un ruolo fondamentale nell’assistenza dei migranti. Ma anche l’associazionismo femminile laico iniziò il suo lavoro di tutela e nel 1907 il Consiglio nazionale donne italiane decise di fondare un Segretariato permanente femminile per la tutela delle donne e dei fanciulli migranti, che agì in maniera mirata per aiutare le migranti istituendo nei luoghi di arrivo le famose case di protezione per le giovani: le Mädchenheime. Quello che importa sottolineare è che la Germania, fin da fine ‘800 ha richiesto continuamente forza lavoro femminile, anche se gli uomini emigrati in quel tempo hanno sempre richiamato maggiore attenzione, data la loro visibilità nei mestieri esercitati: strade, ferrovie, opere in muratura ecc.
Com’erano dunque le migranti di ieri? Mi permetto di citare brevemente le osservazioni dello statistico economista Francesco Coletti che nel 1911 pubblicò una sua teoria interpretativa in chiave psicologica dove scriveva:” Man mano che nella donna penetra il senso dell’autonomia si accresce anche il senso di disagio in cui versa e s’intensifica il desiderio di uscirne. L’emigrazione dunque si presenta come il mezzo più idoneo perché essa equivale ad un atto di indipendenza.” E direi che questa spiegazione fosse all’ora molto all’avanguardia e valida anche oggi soprattutto per quelle donne single, che all’inizio degli anni ‘70 lasciarono volontariamente l’Italia senza necessità di carattere economico, ma solo per il desiderio di fare una nuova esperienza di vita lontano da casa.

Ma se ricordiamo oggi gli accordi bilaterali del 1955 dobbiamo soffermarci anche sul quel momento storico che va dal 1937 al 1943, quando la propaganda nazista iniziò ad esprimersi a favore della presenza di stranieri per sopperire alla mancanza di braccia nell’agricoltura, dovuta allo sviluppo industriale tra cui l’industria bellica che attirava lavoratori e lavoratrici per la migliore remunerazione. Poiché nell’agricoltura tedesca le donne occupavano un posto di primo piano, si pensò subito di sostituirle con donne straniere. La maggior parte di quelle che emigrarono dal 1938 fino al 1943 e, più o meno volontariamente, fino alla fine della Seconda guerra mondiale, proveniva dalla Pianura Padana, soprattutto dall’Emilia Romagna, dal basso Veneto e dalla bassa Lombardia. Questo perché le colture praticate nelle aziende agricole tedesche della Germania Centrale in Sassonia- Anhalt, Turingia Berlino, Brandeburgo e anche in Bassa Sassonia nelle zone di Celle, Uelzen, Braunschweig e Hildesheim erano simili a quelle nella valle del Po, soprattutto patate e barbabietole. Oltre alle contadine, le donne italiane erano presenti come cuoche a servizio delle squadre agricole e anche come interpreti. Nel 1938 il numero delle donne partite ammontava a 5.719 di cui 663 dalla provincia di Rovigo e di 620 da quella di Modena. Nel ‘41-‘42 il contingente divenne ancora più consistente e ciò era dovuto all’ingresso in guerra dell’Italia che necessitava di uomini al fronte. Il 30 novembre 1943, quindi già dopo l’armistizio lavoravano ancora in Germania, 4.317 donne italiane. E anche nella Repubblica di Salò venne introdotto l’obbligo di prestare lavoro nel Terzo Reich. Ancora poco prima della fine della guerra ci furono rastrellamenti in Italia per portare personale in Germania.
L’accordo del 1955, di cui festeggiamo il 70esimo, come sottolinea lo studioso Roberto Sala, riprende fedelmente il testo nazista con la sola differenza che mentre nel ‘37 fu la Germania, ad avanzare la richiesta, negli anni ‘50 fu il governo italiano a fare pressioni sulla Germania. Dal ‘56 al ‘58 le donne reclutate lavoravano principalmente nel giardinaggio e nell’agricoltura, oltre che nell’industria dolciaria e del tabacco. Ricordiamo che in questo periodo arriva in Assia la fabbrica dolciaria piemonteseFerrero. Con l’avvento del boom economico la Germania iniziò una campagna mirata per ottenere forza lavoro femminile. Nonostante non fossero tante, le italiane fino al 1962 rappresentavano il gruppo più cospicuo di donne straniere in Germania, primato che si ripeté nel 1968. Naturalmente ci furono anche i ricongiungimenti famigliari e la presenza italiana ne venne favorita nel suo processo di inclusione. Solo nel 1973 si mise fine alla campagna di reclutamento forza lavoro con l’Italia.
La migrazione femminile di quelle che in un capitolo del mio libro (Donne mobili – l’emigrazione femminile dall’Italia alla Germania 1890 – 2010 a cura della Fondazione Migrantes, Cosmo Iannone editore 2012) ho definito “coraggiose e inquiete” è iniziata negli anni ’70 quando, dopo l’esperienza sessantottina, nelle città e nelle università italiane si è diffusa un’ansia di libertà accompagnata dal rifiuto delle strettoie sociali esistenti, così come un sano desiderio di indipendenza dalla famiglia di origine per poter raggiungere una maggior libertà, e anche un maggior senso di responsabilità nei confronti di se stesse riguardo alla propria vita futura. Era il tempo in cui non esistevano ancora né il bigliettoInterrail e nemmeno il progetto universitario Erasmus. I genitori si portavano talvolta il cruccio che la loro figlia preferisse l’incognito di fronte ad un “posto sicuro” in Italia o che abbandonasse quel bravo ragazzo del suo fidanzato, al quale loro si erano ormai affezionati, per giunta in un Paese come la Germania dove esistevano le “comuni” e la convivenza con l’altro sesso o anche con lo stesso erano ormai un dato di fatto.
Mi sembra doveroso ricordare quelle donne brave e coraggiose che ancora prima dell’esistenza di Internet e dei social hanno fatto sentire la loro voce tramite pubblicazioni, seminari, trasmissioni radiofoniche, fondazione di gruppi di donne migranti, impegno politico e sindacale agendo a livello transnazionale, anche quando il paese di accoglienza era diventato quello degli anni piombo, del Berufsverbot, nel quale l’essere straniera rappresentava di per sé, molto più di oggi, una faticosa componente della propria esistenza. Nel libro ho definito tutte le donne italiane anche quelle di fine ‘800 come “Donne mobili” pur non essendo questo aggettivo entrato ancora in uso nel senso che gli diamo oggi legandolo infatti alla mobilità che ha sostituito la parola emigrazione.
La caduta del muro di Berlino nel novembre del 1989 ha contribuito certamente ad accelerare l’interesse per la vita nella Germania riunita. Berlino ebbe negli anni che seguirono un grande incremento della popolazione femminile italiana. Ma anche altre città hanno attirato giovani donne: Lipsia, Erfurt, Magdeburg, Chemnitz, tutte sedi universitarie fino ad allora completamente sconosciute, perché appunto “oltre cortina”. Nel primo ventennio del 2000 grazie appunto all’apertura verso est, al progetto Erasmus, alla possibilità di poter fare uso dei mezzi di telecomunicazione, in passato molto costosi, assistiamo ad un cambiamento nelle prospettive e nei progetti di vita in tutta Europa con spostamenti sia a breve che a lungo termine.
Andarsene da casa, dal paese di provenienza è oggi accettato, anche se i legami famigliari in Italia “tengono” maggiormente rispetto a quelli in altri paesi. Oggi si può iniziare a cambiare paese di residenza e diventare “cittadino/a” del mondo. È sorta anche una parola nuova” expat” usata per la prima volta dal giornalista Michele Smargiassi su “Repubblica “nel 2010. Ora c’è chi va a lavorare “da remoto” a Bali, mentre il datore di lavoro risiede in un paese climaticamente meno favorevole. Ma la mobilità non è solo di dominio maschile, ci sono ancora “Donne mobili”. Certo lo fanno più spesso i maschi, il cui ritmo vitale non è così vincolante, una volta venuto anche a mancare l’obbligo del servizio di leva, e non legato come per le donne al ciclo vitale che permette loro la maternità. Recentemente, durante un evento all’ Ambasciata italiana di Berlino, due studios* che stanno lavorando ad un progetto finanziato dal MAECI in collaborazione con la Fondazione Migrantes, hanno affermato che oggi, secondo loro, la parola più appropriata per questo nuovo tipo di migrazione non sarebbe più nemmeno mobilità, ma “traiettoria” per sottolineare che non è più legata ad un solo Paese, ma rappresenta una specie di zigzag da un posto all’altro a seconda della convenienza e forse anche dell’umore. Non posso esimermi di fronte all’uso di questo termine balistico dal fare un’osservazione su questa scelta lessicale.
Per me la traiettoria è, e rimane, quella di un proiettile, di una bomba, di un missile, di un drone e sentirne l’uso al posto di quelle finora conosciute e calzanti come soprattutto “mobilità” sinceramente mi preoccupa, perché la vedo come una delle tante espressioni legate alla guerra e alla violenza che oggi purtroppo sembra non possano mancare anche nel linguaggio solitamente pacifico di chi vuole solo fare un’esperienza di vita diversa lontano da casa-



























