Italiani nel 1956. Foto di ©CdI

Nel settantesimo anniversario dell’accordo bilaterale tra Italia e Germania per il reclutamento della manodopera, la commemorazione che si è tenuta il 5 dicembre a Francoforte presso La Deutsche-Italienische Vereinigung si è trasformata in un viaggio nella memoria attraverso il cibo

L’incontro “Dove il cibo è memoria di casa. Storie di migrazioni” ha riunito studiose e testimoni per raccontare come, per molti italiani emigrati in Germania dal dopoguerra a oggi, la cucina sia stata un ponte tra passato e presente, un linguaggio identitario capace di unire generazioni e culture.

Cucinare la distanza: l’intervento di Laura Melara-Dürbeck

Nella foto: Laura Melara-Dürbeck. Foto di ©Linardi

A introdurre la serata è stata Laura Melara-Dürbeck, rappresentante dell’Accademia Italiana della Cucina a Francoforte, che ha proposto una riflessione intensa sul gesto quotidiano del cucinare all’estero, definito come “trasformare la lontananza in un’esperienza concreta e tangibile”.

La sua testimonianza personale – una valigia del 1987 con una caffettiera, un pezzo di parmigiano e un barattolo di conserva di pomodoro – è diventata simbolo universale dell’esperienza migratoria. Oggetti semplici, ha spiegato, ma carichi di storie: “In quella conserva ci sono le mani della mia famiglia calabrese, le voci dei cortili d’estate, il sole imbottigliato in un barattolo. Ogni mattina il profumo del caffè era il mio modo di cucinare la distanza, di rendere la nostalgia abitabile”.

Per Melara-Dürbeck il cibo è prima di tutto identità migrante, un modo per tenere insieme due mondi e dare forma alla nostalgia senza esserne travolti.

Richiamando storici e antropologi del gusto, ha ricordato come l’esperienza italiana in Germania – fatta di cucine improvvisate, ingredienti che mancavano, ricette modificate per forza di cose – abbia dato vita a quella che lei definisce una “cucina decentrata”, nata fuori dall’Italia ma autentica nella sua capacità di adattarsi e reinventarsi.

Nel suo intervento, Melara-Dürbeck ha riportato molte testimonianze degli emigrati italiani degli anni Cinquanta e Sessanta: stanze condivise da quattro persone, cucine con un unico fornello per otto, discussioni quotidiane, ma anche momenti di festa creati semplicemente cuocendo “un chilo di carne in tre, tanto per dire che è festa”.

Il cibo era insieme conforto e resistenza: “Il pensiero va alla famiglia, al nostro vino così nero e forte, alle salsicce pepate che sapevano di casa”.

E non mancavano aneddoti che raccontano anche l’incontro, a volte buffo, con la cultura tedesca: come quella volta in cui dei colleghi tedeschi addentarono una fetta d’anguria con tutta la buccia, ignari di come si mangiasse.

A partire dagli anni ’70 la cucina italiana uscì dalle case degli emigrati per conquistare gli spazi pubblici: trattorie, pizzerie, ristoranti familiari.

Non sempre autentici, spesso adattati ai gusti tedeschi – panna nei sughi, pizze cariche di ingredienti – ma luoghi fondamentali per costruire una nuova immagine dell’italianità in Germania.

Figure come Antonio Scognamiglio, uno dei primi grandi importatori di prodotti italiani, furono decisive per rendere possibile il legame culinario tra i due Paesi.

Oggi, ha sottolineato Melara-Dürbeck, la nuova generazione di chef italo-tedeschi – formata, attenta alla sostenibilità, ancorata alle specificità regionali – sta dando vita a un nuovo modo di “cucinare la distanza”, più consapevole delle proprie radici e più libero di sperimentare.

Nella foto: Edith Pichler. Foto di ©Linardi

Edith Pichler: il cibo come memoria comunicativa

Il testimone è poi passato a Edith Pichler, sociologa e docente presso l’Università di Potsdam, che ha esplorato il legame tra migrazione, cibo e memoria attraverso le categorie della memoria comunicativa e culturale. Il cibo, ha spiegato, è un archivio vivente: non solo nutre, ma trattiene storie, pratiche e appartenenze che si tramandano in modo informale, spesso nelle cucine delle famiglie migranti.

Anche Edith Pichler ha portato ricordi personali: i vasetti di salsa del Trentino trasportati in valigia fino a Berlino, il panettone ingombrante da portare a Natale “quando ancora non si trovava nei negozi tedeschi”, il formaggio Bel Paese come unico prodotto italiano disponibile negli anni Settanta. Ogni alimento diventava un tassello di continuità, un modo per ristabilire un legame con casa quando casa era lontana migliaia di chilometri.

Ha ricordato come quei gesti, oggi quasi romantici, fossero in realtà necessità pratiche ed emotive. Il cibo viaggiava insieme ai migranti: attraversava frontiere, si adattava, cambiava forma per sopravvivere nei nuovi contesti. E talvolta era l’unico spazio in cui gli italiani potevano riconoscersi, dopo giornate lavorative dure o in quartieri dove la loro presenza non era sempre accolta con entusiasmo.

Ma soprattutto ha richiamato il peso emotivo del cibo per gli emigrati italiani, spesso vittime di discriminazioni e non sempre accolti calorosamente:
Il cibo dava loro un senso di appartenenza. Era una bolla di sapori che li proteggeva dal sentirsi respinti”.

Pichler ha concluso sottolineando come questi patrimoni culinari abbiano poi trasformato, silenziosamente ma profondamente, anche la società tedesca: “Le cucine degli immigrati sono state i primi ponti culturali. Prima che arrivassero le parole, sono arrivate le ricette”.

Nella foto da sx: Stephanie Neu-Wendel e Maria Giacobina Zannini. Foto di ©Linardi

“Ricette contro la nostalgia”: il contributo di Neu-Wendel e Zannini

La serata si è conclusa con l’intervento di Stephanie Neu-Wendel, docente presso l’Università di Mannheim, e Maria Giacobina Zannini, docente presso l’università di Heidelberg, che hanno analizzato il modo in cui cinema e letteratura raccontano la cucina italo-tedesca come spazio di negoziazione identitaria. Partendo dal loro progetto “Ricette contro la nostalgia”, le due studiose hanno mostrato come la tavola sia spesso la prima scena in cui si rappresentano tensioni, conflitti, riconciliazioni e contaminazioni tra culture.

Zannini ha messo in luce il modo in cui il cinema tedesco e italo-tedesco utilizza il cibo come linguaggio immediato per raccontare l’integrazione: dalle commedie degli anni Ottanta, dove lo “Spaghetti-Koch” era figura stereotipata ma familiare, fino alle produzioni più recenti che presentano cucine miste, moderne, in cui gli ingredienti italiani entrano naturalmente nella quotidianità tedesca. I pasti condivisi, ha spiegato Zannini, diventano spesso dispositivi narrativi che permettono ai personaggi di superare incomprensioni e pregiudizi, mostrando come i gusti — più delle parole — possano avvicinare mondi diversi.

Neu-Wendel ha approfondito la prospettiva letteraria, portando esempi di romanzi e memoir in cui le ricette diventano un ponte emotivo con l’Italia. Nei testi delle seconde e terze generazioni il cibo assume la forma di una “memoria ereditata”: non più solo nostalgia per ciò che si è lasciato, ma un materiale narrativo attraverso cui i discendenti raccontano la complessità delle proprie radici. Una minestra cucinata “come la faceva la nonna”, o un piatto reinventato con ingredienti tedeschi, diventa così un modo per ridefinire continuamente l’idea stessa di italianità.

Tra libri, film e testimonianze familiari, il cibo emerge dunque come un archivio vivo: conserva, trasforma, tramanda. È un luogo di incontro tra generazioni, tra lingue, tra appartenenze multiple. Un laboratorio in cui migranti e figli di migranti rielaborano la propria identità, a volte ricucendo la nostalgia, a volte costruendo nuove forme di appartenenza. In questo senso, hanno concluso Neu-Wendel e Zannini, le ricette non sono soltanto istruzioni culinarie, ma veri e propri dispositivi culturali che aiutano a orientarsi tra passato e futuro.

La conclusione della serata ha avuto il sapore della riconciliazione tra culture, come racconta un’ultima testimonianza: “Mio padre, vivendo in Germania, aveva imparato a fare la Linsensuppe. Ci metteva un goccio d’aceto e dei würstel tagliati piccolissimi. Era buonissima. Abbiamo fatto entrare in casa nostra un po’ di usanze tedesche e abbiamo dato molto delle nostre ai nostri amici. Alla fine ci siamo avvicinati, e in qualche modo uniti”.

A settant’anni dall’accordo che cambiò la vita di centinaia di migliaia di famiglie, il cibo continua a essere un ponte. Una tavola apparecchiata tra Italia e Germania, dove la memoria non è un ricordo fermo, ma un impasto vivo, fatto di ingredienti che viaggiano, si mescolano, cambiano e continuano a raccontare chi siamo.

L’evento è stato organizzato dalla Fondazione di Studi Italo-Tedeschi, dalla Deutsche-Italienische Vereinigung e.V. e dall’Accademia Italiana della Cucina – Delegazione di Francoforte, la Fototeca Storica Nazionale Ando Gilardi di Milano,  in collaborazione con l’Istituto Italiano di Cultura di Colonia, con l’Assessorato alla Cultura della Città di Francoforte e con l’AmKa di Francoforte, e si è svolto con il patrocinio e il sostegno del Consolato Generale d’Italia a Francoforte.