Nella foto da sx: Pino Tabbì, Francesco Vizzarri, emiliano Manfredonia, Lisa Mazzi. Foto di ©CdI

Intervento di Emiliano Manfredonia al Convegno di Acli Germania e Delegazione MCI Germania “Frontiere in movimento”

La storia dell’emigrazione italiana sarebbe stata radicalmente diversa senza la presenza e la forza dell’associazionismo. Fin dalle prime ondate migratorie, le società di mutuo soccorso, le parrocchie, i circoli regionali e i sodalizi politici e culturali hanno rappresentato un’infrastruttura sociale fondamentale: un luogo di protezione, di orientamento, di solidarietà ma anche di costruzione identitaria e di rappresentanza collettiva. Per decenni, questi organismi hanno incarnato l’anima comunitaria dell’emigrazione italiana, contribuendo a costruire non solo reti di sostegno ma anche forme di cittadinanza attiva nei Paesi di approdo. Tuttavia, nel contesto della mobilità globale contemporanea, questa lunga tradizione si trova oggi in una fase di profonda trasformazione e, in molti casi, di crisi.

Le associazioni storiche soffrono la difficoltà del ricambio generazionale, la perdita di centralità nei processi di rappresentanza e la crescente distanza dai bisogni concreti delle nuove generazioni di italiani all’estero. È una crisi che non riguarda soltanto l’impegno o la partecipazione, ma la stessa funzione sociale e politica dell’associazionismo come spazio di mediazione tra individuo, comunità e istituzioni.

I dati parlano chiaro: per il Ministero degli Affari Esteri, nel 2000 le associazioni riconosciute di italiani nel mondo erano 7.056, di cui 3.319 in Europa. Oggi, nel 2025, ne restano 1.414, di cui 537 in Europa. In meno di venticinque anni, il numero delle associazioni riconosciute si è ridotto di oltre l’80%. Si tratta di un crollo che non può essere spiegato solo con la fine di un ciclo storico: è il segno di un mutamento strutturale nel modo in cui gli italiani emigrati costruiscono relazioni, appartenenze e forme di solidarietà.

Parallelamente, anche la composizione dei flussi migratori è cambiata profondamente. Dopo la crisi economica globale del 2008, la mobilità italiana ha ripreso vigore e, secondo i dati del Rapporto Italiani nel Mondo, le iscrizioni all’AIRE per espatrio superano da anni le 100.000 unità annuali. Ma si tratta di un’emigrazione diversa: più giovane, più qualificata, spesso temporanea o circolare, e caratterizzata da una forte componente di mobilità intraeuropea.

Il sociologo David Cairns ha introdotto un concetto utile per comprendere questo fenomeno: quello di capitale di mobilità, cioè l’insieme di competenze linguistiche, culturali, relazionali e simboliche che facilitano la capacità di muoversi e integrarsi in contesti internazionali. Le nuove generazioni di italiani all’estero possiedono un capitale di mobilità più elevato rispetto ai migranti del passato, e ciò riduce la loro dipendenza dalle reti associative tradizionali. Questo non significa che la migrazione sia quella esclusivamente dei cosiddetti “cervelli in fuga”, concetto lontanissimo dalla realtà ma purtroppo al centro della narrazione mediatica. Abbiamo proposto a questo proposito alla Fondazione Migrantes un progetto di raccolta, racconto e denuncia delle nuove forme di sfruttamento della emigrazione italiana e lo faremo in quattro città globali attraverso la nostra associazione e il nostro patronato: Londra, Parigi, Francoforte e Bruxelles. Ci siamo fermati all’Europa ma sì alziamo lo sguardo oltreoceano la situazione è ancora più drammatica, dove il titolo di soggiorno è la discriminante tra riconoscimento e sfruttamento

Inoltre, Internet e i social media hanno trasformato radicalmente le modalità di socializzazione e di accesso alle informazioni. Oggi chi decide di emigrare prepara la propria partenza online: trova lavoro, casa (con grandi difficoltà e spesso con grandi delusioni), contatti e perfino amicizie prima di arrivare nel nuovo Paese. Le piattaforme digitali diventano così nuove infrastrutture migratorie, sostituendo in parte quelle comunitarie del passato. Questa evoluzione ha due effetti principali: da un lato, l’indebolimento del mutualismo territoriale che per decenni aveva sostenuto gli emigrati; dall’altro, l’emergere di nuove forme di aggregazione, più fluide, più informali e spesso completamente digitali, che reinterpretano in chiave contemporanea lo spirito mutualistico.

Tre sono le principali aree di questo “nuovo associazionismo”:

Le reti professionali e di settore, come le associazioni di ricercatori, imprenditori, freelance e innovatori italiani all’estero. Queste reti, spesso promosse da ambasciate, istituti italiani di cultura o nate autonomamente su piattaforme come LinkedIn e Facebook, operano secondo logiche di scambio professionale e mentoring. L’appartenenza italiana resta sullo sfondo, come un collante culturale più che come un’identità esclusiva. Le comunità digitali territoriali, che si sviluppano su piattaforme come Facebook, Telegram o Reddit, dove gli italiani in una determinata città o regione si scambiano consigli pratici su casa, lavoro, scuola, sanità e burocrazia. Questi spazi digitali non sono solo informativi, ma anche relazionali: diventano luoghi di supporto reciproco e, spesso, di incontro reale. Alcuni di questi gruppi sono evoluti in comunità fisiche, capaci di organizzare eventi culturali, sportelli informativi o iniziative di cittadinanza locale. I gruppi di famiglie e genitori italiani all’estero, che promuovono doposcuola, laboratori di lingua italiana, feste, incontri conviviali. Queste esperienze, spesso nate dal basso e rafforzate durante la pandemia, hanno una duplice funzione: fornire supporto pratico e trasmettere cultura e identità ai figli, creando al contempo spazi di socialità e mutuo aiuto.

In tutte queste forme di aggregazione, pur diversissime tra loro, emerge un elemento comune: la convivialità.
La convivialità non è solo un modo di “stare insieme”, ma una vera e propria pratica sociale intenzionale, capace di generare fiducia, prossimità e solidarietà. Le feste, la cucina, il cinema, la musica, i picnic comunitari diventano occasioni di incontro interculturale e intergenerazionale, ma anche strumenti per elaborare una nuova forma di appartenenza italiana, più leggera, plurale e relazionale.

La convivialità, in questo senso, ha una valenza anche politica. Essa rappresenta uno spazio di demercificazione della socialità, dove le relazioni non sono regolate dal profitto ma dalla reciprocità e dal dono. In un’epoca in cui il tempo libero e la cultura sono sempre più mercificati, le pratiche associative e conviviali restituiscono valore alla gratuità e al senso di comunità.

Tutto ciò apre una questione cruciale: come riconoscere e sostenere queste nuove forme associative?
Il sistema istituzionale italiano all’estero – dai Comites al CGIE, fino ai meccanismi di finanziamento pubblico – è ancora strutturato per interlocutori formali, dotati di statuti, sedi fisiche, organigrammi. Le nuove forme di aggregazione, invece, sono fluide, temporanee, ibride, talvolta effimere, ma non per questo meno significative o rappresentative. Il rischio è che la rappresentanza ufficiale degli italiani all’estero resti ancorata a un modello superato, incapace di dare voce alla pluralità e alla complessità della mobilità contemporanea. È dunque urgente immaginare politiche di sostegno rinnovate, che valorizzino anche le realtà informali, ibride e digitali, favorendo reti di collaborazione e riconoscimento reciproco.

E’ fondamentale la creazione di un “ecosistema dell’italianità all’estero”, un sistema reticolare che metta in connessione associazioni storiche e nuove forme aggregative, promuovendo sinergie, co-progettazione e rappresentanza inclusiva. Il “nuovo associazionismo” non è un ritorno nostalgico, ma un processo dinamico e aperto. Riflette la mobilità italiana contemporanea: individuale ma non solitaria, transnazionale ma ancora radicata nell’Italia, digitale ma con un persistente bisogno di incontro e relazione in presenza.

È in questa tensione – tra autonomia e comunità, tra virtuale e conviviale, tra memoria e innovazione – che può rinascere un mutualismo migrante del XXI secolo, capace di interpretare la complessità dell’esperienza italiana nel mondo e di rinnovare, in chiave moderna, quella tradizione di solidarietà, partecipazione e cittadinanza che da oltre un secolo accompagna la storia delle nostre migrazioni.

Ma perché associarsi? E Perché farlo nelle Acli? Non dobbiamo mai smettere di interrogarci, non tanto sulla forma del nostro essere associazione ma sulla domanda “per chi?” per chi facciamo associazione, per chi fatichiamo, impegniamo tempo prezioso. Credo sia importante oggi più che mai rispondere a questa domanda. Siamo ancora in grado di convocare le realtà vicine a noi? di coinvolgere i soci? di parlare di temi interessanti? Soprattutto qui, in Germania, siamo capaci di essere visibili, non tanto ai giornali, ma a chi ha bisogno di noi? A chi arriva e se pur non cerca una comunità è attanagliato da dubbi e solitudini?

Siamo in grado di attivarci per creare nuovi entusiasmi, siamo in grado di promuovere le Acli con nuovi circoli, nuove azioni? gestiamo solo l’esistente o siamo ancora capaci di rivoluzioni?

Si, rivoluzioni, non sto usando una parola sbagliata. In un tempo fragile come quello odierno nel quale spesso le questioni internazionali ci cadono addosso in Germania come in Italia, abbiamo il compito non tanto di far passare il buio (con tutte le insicurezze che porta con sé) ma abbiamo la responsabilità di accendere un lumino, una candela. Solo così le Acli potranno essere un luogo di santità feriale come ci ha chiesto Papa Francesco all’udienza del 1° giugno del 2024. Un luogo nel quale i piccoli gesti, le relazioni, il valore di essere un “noi” possa portare a vedere le fatiche quotidiane come esperienze di senso per creare un luogo di significato, nel quale aiutare la nostra vita ad essere sollievo per quella di tanti altri.

Il mio invito è quello di continuare ad essere promotori di politiche, di non smettere di incontrarvi ma far conoscere la nostra attività e provocare sui tanti temi che oggi attanagliano il mondo. In particolare, il tema dei Migranti. Ma come è possibile che vedendo il vostro contributo a questa grande nazione non ci si renda conto che migrare non solo è speranza ma crescita per tutti? un bagno di vita per chi arriva e un miglioramento, una crescita culturale per chi accoglie, certo superando mille sfide ma per questo le politiche invece che repressive devono tener conto di un’esperienza che non solo includa ma che crei reti sociali di supporto, di solidarietà nel quale ogni persona possa sentirsi protagonista.

Le Acli sono chiamate alla sfida democratica, troppi venti di destra populista e sovranista riempiono le pance di persone che sentendosi messe ai margini chiedono giustizia. In un mondo corrotto dall’individualismo si cerca la strada della chiusura quando invece l’unica via possibile per la “salvezza” di tutti è rendersi protagonisti di una stagione di solidarietà, di comunità vive che si fanno carico delle fatiche altrui, di politiche lungimiranti che affrontino la complessità del mondo moderno non lasciano indietro nessuno. La nostra costituzione porta con sé i semi dell’uguaglianza, della democrazia non come intreccio di leggi ma come un fatto di giustizia che parta dall’inclusione di tutti. In un mondo che fa scarti perpetuare questo spirito non può che accendere una luce di speranza.

E la pace sia il nostro primo pensiero, sia la strada da percorrere. La pace disarmata, di chi non ha niente da perdere e non si prepara alla lotta ma desidera la prosperità che solo il tempo di pace può donare. Per questo dobbiamo saper chiedere il perdono, la riconciliazione, costruire con il dialogo, con i patti, anche quelli scomodi, solo così potremmo essere disarmanti e non far paura a nessuno se non a chi ancora pone la guerra, armarsi come un fattore di sicurezza per raggiungere la pace. Non c’è bugia più grande. In Italia è partita la carovana peace at work perché il lavoro costruisce la pace attraverso la solidarietà, la relazione comune, il progetto. La guerra rompe, divide, separa, distrugge. Il lavoro invece unisce, crea, lascia. Attraverso questo percorso vogliamo arrivare al decisore Europeo per chiedere politiche di pace che non escludono la difesa comune ma la realizzino senza cedere alle imponenti lobby delle armi o a quei politici che vedono solo barriere, armi, fili spinati davanti al futuro dell’Europa.

Siete qui perché il progetto europeo vi ha consentito di lavorare qui, adoperarvi per questa società, perché sono state aperte le frontiere, sono state favorite collaborazioni. Un dono che sembra abbiamo scordato ma che è stata la radice del nostro benessere e della condivisione dei nostri valori che invece stiamo tradendo proprio mentre diciamo di voler difendere.

Ecco queste sono le cose che volevo dire, forse un po‘ alla rinfusa per dirvi che insieme possiamo fare ancora molto per le nostre comunità, per far si che si possa mostrare un mondo fatto di giustizia e di pace. Iniziando da noi. Abbiamo un grande compito, si, è vero ma dobbiamo rinnovare il nostro impegno quotidiano. Grazie per tutto quello che fate, che facciamo insieme.