Apertura al Convegno di Acli Germania e Delegazione MCI Germania “Frontiere in movimento” di Francesco Vizzarri

Nell’autunno appena trascorso, l’Unione Europea ha rilanciato il programma Interrail: con il pagamento di una cifra simbolica, le giovani e i giovani europei possono nuovamente viaggiare quasi gratuitamente in treno e scoprire città, culture e lingue del continente. La mobilità giovanile all’interno dello spazio europeo non è certo una novità: i primi programmi Interrail risalgono infatti agli anni Settanta. Oggi, dopo 40 anni dagli accordi di Schengen, l’iniziativa viene riproposta con l’obiettivo di rafforzare i legami tra le società europee in una fase complessa, segnata dal ritorno al centro del dibattito del diritto di emigrare, da crescenti diseguaglianze sociali, da stili di vita sempre più transnazionali e da un ordine internazionale sempre più minacciato da derive sovraniste, nazionalistiche e antidemocratiche.
L’esperienza Interrail degli anni Settanta si intrecciava già allora con un’altra forma di mobilità: quella dei migranti per lavoro. Fin dagli anni Cinquanta e Sessanta, centinaia di migliaia di lavoratrici e lavoratori provenienti dal Sud e dal Sud-Est dell’Europa raggiungevano le principali destinazioni industriali del continente. Questo parallelo – Interrail da un lato e migrazione del lavoro dall’altro – non è improprio: entrambe le mobilità esprimono, seppur in forme differenti, un medesimo processo di integrazione europea, fondato sull’apertura progressiva degli spazi comunitari alla circolazione delle persone. Pur distinguendosi profondamente per natura giuridica, condizioni materiali e implicazioni politiche, questi fenomeni partecipano allo stesso percorso di unificazione europea avviato con i Trattati di Roma del 1957 e consolidatosi negli anni Sessanta con la definizione del mercato comune. Un processo che ha contribuito in modo decisivo a plasmare le società multiculturali nelle quali viviamo oggi.
Tra le mobilità mitteleuropee del dopoguerra, un ruolo di primo piano spetta all’emigrazione italiana. Come ha osservato lo storico Toni Ricciardi, essa rappresenta uno dei pilastri della rinascita democratica e repubblicana del Paese. Negli anni immediatamente successivi alla caduta del fascismo, la possibilità di emigrare costituì per molti un diritto di libertà e una concreta via di riscatto. Ricciardi ha definito in modo provocatorio ma efficace l’Italia del dopoguerra come una Repubblica fondata “sul lavoro all’estero”, in altre parole, “una Repubblica democratica fondata sull’emigrazione”. Già nel 1948, infatti, Alcide De Gasperi, presidente del Consiglio dei Ministri italiano, richiamava la necessità di “espandere i confini” e invitava le cittadine e i cittadini italiani a cercare fortuna anche fuori dal Paese, poiché – come affermò – “entro le frontiere non ci stiamo”. Il governo della prima Repubblica incoraggiò dunque la riapertura delle rotte migratorie, vedendo nell’emigrazione non solo una valvola di sfogo economica, ma anche un canale di proiezione culturale dell’Italia in un’Europa in formazione.
Fra i numerosi accordi di immigrazione stipulati dal governo federale tedesco con diversi Paesi di emigrazione del Sud-Est europeo e dell’area mediterranea, quello firmato il 20 dicembre 1955 tra l’Italia e la Repubblica Federale di Germania fu il primo e segnò una svolta decisiva nelle politiche internazionali di immigrazione tedesche. L’avvio dei reclutamenti ufficiali di manodopera italiana nei centri di emigrazione, tra cui quello di Verona, attivo dal 1958 fino all’inizio degli anni Novanta, modificò profondamente il panorama economico e sociale di entrambi i Paesi. Tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio dei Sessanta, migliaia di giovani uomini e donne attraversarono frontiere fino ad allora difficilmente valicabili, spinti non solo dalla necessità economica ma anche dal desiderio di aprirsi nuove prospettive di vita. Le ricerche più recenti mostrano come, accanto alle motivazioni materiali, vi fossero aspirazioni individuali, curiosità e progetti che resero quelle partenze esperienze complesse e profondamente umane.
Da quell’emigrazione, inizialmente regolata da rigidi accordi bilaterali volti a “governare” le migrazioni e la mobilità, nacquero percorsi molteplici e mutevoli, individuali e collettivi. Pur mossi da ragioni economiche, essi determinarono un profondo cambiamento nelle abitudini, nei costumi e nella cultura stessa di chi partiva, così come di chi, in Germania, vedeva arrivare questi “migranti”. L’immigrazione italiana trasformò in modo significativo la società tedesca, avviando de facto un processo dinamico – e tuttora in corso – verso una vera e propria Einwanderungsgesellschaft, che la storica delle migrazioni Maria Alexopoulou ha definito però “wider Willen”, contro la propria volontà.
Le italiane e gli italiani che arrivarono in Germania si confrontarono sin dall’inizio con una situazione paradossale: da un lato, l’immagine positiva associata al mito della Dolce Vita, capace di suscitare curiosità e simpatia; dall’altro, la loro persistente percezione come “stranieri”. Incontrarono così l’altra faccia della medaglia: discriminazioni, razzismo, alloggi malsani, contratti precari, ingiustizie sociali e marginalizzazione. Gli scandali legati agli alloggi dei Gastarbeiter – come il caso delle “Baracken” della Holzmann AG in Assia, divenuto negli anni Settanta un nodo politico di rilievo – ricordano quanto le promesse di integrazione fossero spesso disattese.
Molti lavoratori e le loro famiglie sperimentarono esclusione, precarietà e difficoltà di inserimento, mentre i figli crescevano tra lingue e identità diverse, senza poter beneficiare del riconoscimento della doppia cittadinanza fino agli anni Duemila. La ricerca storica ha mostrato come queste contraddizioni derivassero da una visione rigidamente nazionalistica delle politiche migratorie tedesche e dalla persistente convinzione che la Germania “non dovesse diventare un paese d’immigrazione”. Questa discrepanza fra una realtà multiculturale già evidente sin dagli anni Sessanta e la lentezza delle politiche di integrazione ha prodotto un lungo stallo politico e culturale, superato solo in parte negli ultimi decenni.
A settant’anni dall’accordo italo-tedesco del 1955, abbiamo voluto discutere di queste esperienze, memorie e sfide nel convegno “Frontiere in movimento”, svoltosi il 18 ottobre 2025 presso la Missione Cattolica Italiana di Francoforte. L’obiettivo non era tanto celebrare un anniversario, quanto aprire un dialogo vivo tra storia, attualità e memoria collettiva dell’emigrazione italiana in Germania.
Al convegno hanno partecipato storici, sociologi, giuristi, giornalisti e rappresentanti delle istituzioni italiane, dell’associazionismo e della Chiesa italiana in Germania. Gli interventi e le presentazioni saranno pubblicati prossimamente su questo sito in una breve serie, accompagnata da una selezione di fotografie e documenti. L’obiettivo è dare continuità al confronto avviato a Francoforte sul Meno, trasformandolo in un vero e proprio forum sulla memoria migrante, capace di coinvolgere le nuove generazioni e di sensibilizzare anche chi, finora, non si è mai avvicinato a questa parte fondamentale della nostra storia comune.




























