Nella foto: Paola Strocchio. ©privat

Figlia di Merda – Manuale di sopravvivenza per figlie adulte” di Paola Strocchio è un libro che scuote, diverte e fa male in egual misura. Una guida ironica e lucidissima dedicata a tutte quelle donne che hanno vissuto – o vivono ancora – la schiacciante sensazione di non essere mai abbastanza per i propri genitori. Il titolo, volutamente provocatorio, è il punto di partenza di un viaggio intimo che alterna confessioni, aneddoti, riflessioni personali e momenti di umorismo tagliente.

Paola Strocchio, giornalista e scrittrice torinese, ha attraversato per anni il labirinto della ricerca di approvazione familiare, esperienza che ha trasformato prima in autoironia, poi in analisi e infine in materia narrativa. Il suo approccio è al tempo stesso leggero e profondissimo: racconta senza psicologizzare, ma con una sensibilità che nasce dalla propria esperienza, da un percorso personale e da un forte desiderio di comprensione emotiva.

Abbiamo esplorato con l’autrice come la sindrome della “figlia non abbastanza” si formi, come si trasformi, e quanto l’ironia possa diventare una forma di autodifesa emotiva. Paola Strocchio ci racconta come nasce la sua consapevolezza, come affronta le proprie fragilità e come la scrittura abbia trasformato il suo vissuto in un manuale di sopravvivenza collettivo.

Il titolo è volutamente provocatorio. Qual è stato l’episodio o la presa di coscienza che l’ha spinta a identificare il suo stato d’animo con l’etichetta „Figlia di Merda“ (FDM) e a capire che era un sentimento diffuso?

Mi sono sempre sentita piuttosto inadatta, come se in qualche modo non fossi “mai abbastanza”. La consapevolezza vera e propria è arrivata per caso, un po’ di anni fa, mentre chiacchieravo al telefono con una mia amica, Valeria. Per provare a tirarmi su il morale mi ha detto più o meno così: “Rassegnati, Paoletta. Sei una figlia di merda. Lo siamo un po’ tutte, in fondo”. E così ho aggiunto un tassello alla mia identità. Lei scherzava, ovviamente, ma in quell’istante ho capito che il cappello di FDM mi calzava a pennello.

Il libro bilancia serietà e auto-ironia. Quanto è stata fondamentale l’ironia per affrontare un tema così intimo e doloroso come la costante ricerca di approvazione genitoriale, e quanto l’ha aiutata a „de-drammatizzare“ la sua stessa esperienza?

L’ironia, soprattutto quella che declino nei miei confronti, è parte di me. È l’arma che uso per affrontare le giornate, anche quelle più buie. Di fatto non toglie niente alla pesantezza di certe situazioni, ma mi aiuta a riderci sopra, e a pensare che se alla fine ci scappa un sorriso, anche se non una risata, allora non è tutto da buttare. È stato così anche in questo caso.

Crede che la „sindrome della Figlia di Merda“ sia una particolare declinazione femminile della più nota sindrome dell’impostore, dove l'“impostura“ non è nel lavoro ma nel ruolo di figlia „perfetta“?

Mentre scrivevo il libro non mi è mai venuta in mente la sindrome dell’impostore, altrimenti avrei dedicato almeno un capitolo al tema. Sì, la sindrome della FDM è una declinazione al femminile. Non ho evidenze scientifiche, ma credo lo sia, o per lo meno lo è per me. Non ci si sente mai all’altezza, e quando le cose filano incredibilmente lisce ci si domanda se in arrivo c’è una nuova tempesta, perché ci si convince che non si merita fino in fondo l’approvazione dei propri genitori.

Pur essendo un racconto autoironico, il tema è profondamente psicologico. Ha consultato esperti o testi specifici sulla dinamica genitore-figlio adulto durante la scrittura, o si è basata unicamente sull’osservazione e l’esperienza?

Non ho nessuna competenza psicologica, se non una breve ma utile esperienza come paziente. Ho però deciso di iscrivermi a una nuova laurea, che mi auguro possa diventare la mia terza, in psicologia della comunicazione, in Bicocca. La questione mi affascina molto, ma sono assolutamente una neofita.

Il libro è pieno di aneddoti, suoi, delle sue amiche e anche di fantasia. Come ha gestito l’equilibrio tra la narrazione personale e il tentativo di rendere il messaggio universale, evitando il rischio di generalizzare eccessivamente dinamiche familiari uniche?

Ogni dinamica familiare è a sé, giustamente, così come lo è ogni storia, e il rischio di generalizzare è concreto. Spero di non averlo fatto, perché le generalizzazioni non mi piacciono. Mi auguro di non avere subito troppo l’effetto dell’echo chamber, e di non dover scoprire che in realtà sono io a circondarmi volontariamente di FDM. Diciamo che nella scrittura mi sono confrontata spesso con amiche e conoscenti per sondare il terreno, e ho appurato che si trattava di un sentimento piuttosto diffuso. Mi sono sentita meno sola, ecco, anche se ciascuno di noi mantiene la propria unicità.