In una delle sue più affascinanti lezioni di storia moderna, il mio insuperabile maestro, Domenico Ligresti. distingueva due generi di Storici: coloro che misurano gli avvenimenti col metro della poesia e sentono il dolore dei popoli dopo disfatte immense, profetizzando tramonti di epoche. E coloro che invece li misurano con riga e compasso, quasi che fossero dei gestori di pompe funebri al cospetto dei familiari in pianto. I primi sono quelli più simpatici, perché toccano le corde dell’anima e suscitano malinconia ed una reazione mai razionale, perché non hanno la forza di distaccarsene completamente.
I secondi, invece sono come dei giudici che tendono a prevenire un evento proprio perché doloroso e tremendo, cercano delle spiegazioni e si provano ad impedirne il seguito e gli effetti. Ai primi ci pare che appartenga Oswald Spengler (Blakenburg, Sassonia 1880 – Monaco, 1936); ai secondi, Gaetano Mosca. Figlio di un piccolo impiegato postale, Oswald eccelse negli studi classici e filosofici, si laureò in filosofia su Eraclito e mal sopportava la fisica, la matematica e le scienze in generale, diffidenza che lo porterà a non approfondire la verità dei fatti comprovandola con dati statistici. Ostracizzato dalla classe universitaria per le sue simpatie prussiane proprio a Monaco dove si laureò, seguace del giovane Goethe, fu discepolo di Nietzsche ed interventista fin dal 1914. Caduto l’impero per quella teoria della pugnalata alla schiena all’esercito prussiano invitto in battaglia; nel 1918 scrisse un saggio che lo porrà nella storia nel bene e nel male dai filosofi dalla storia stessa: Il tramonto dell’occidente. 250.000 copie vendute nel biennio successivo in Germania, che ne fecero un fenomeno letterario e storico ad un tempo.
Perché? Echeggiava il lamento del popolo tedesco sconfitto in modo singolare, come si disse tradito, mai vinto; preso per fame e per incapacità della classe militare e governativa, malgrado i tanti morti in trincea (mi sembra di rileggere le parole del nostro Cadorna dopo Caporetto.). Piuttosto, Oswald cavalcò la paura e la nostalgia nel vedere il tramonto dell’occidente ritrovandolo nel destino di un secolo in cui la Kultur nazionale era svanita. Era per lui legge di natura che fosse avvenuto l’ineluttabile declino del Paese. E ciò lo comprovava non col dato tecnico, ma dal semplice confronto con le altre civiltà in decadenza, dalla Grecia a Roma, dall’Egitto alla Cina.
Si era verificato a suo dire un livello di civilizzazione sociale e scientifica prodromico alla caduta, ivi compresa le nuove tecniche di guerra che il suo discepolo Jünger segnalerà come ulteriore imbarbarimento della antica Società degli Eroi. E ciò avveniva propria nella freschissima Repubblica di Weimar, dilaniata fin dal principio da una crisi economica e sociale irresolubile per la inevitabile discesa sociale di quella classe borghese che aveva creduto nella rivoluzione industriale.
Questa per Spengler costituiva il cancro che divorava la natura buona dell’uomo. In realtà, dietro questa stupefacente, singolare ed affabulante causalità, non solo vi stavano tutte le mancanze di fiducia per la modernità vista come un grande e machiavellico inganno del potere, ma anche la teoria organicista che Goethe e Herder, padri della Germania, avevano formulato nel secolo più splendido di quella nazione. In breve, la Storia non procederebbe progressivamente verso un futuro migliore, come una retta verso il paradiso in cielo; ma si attorciglierebbe su se stessa, in una serie concentrica, sempre più bassa, quasi a spirale in terra. Fino a tornare ad un livello nel punto più basso. In altri termini, la storia universale era come la Storia di ciascuno di noi che nasce e cresce, matura, invecchia e muore senza speranza e con un pessimismo storico e cosmico da fare invidia a Leopardi.
La civilizzazione era intesa intesa come una vittoria temporanea dell’uomo, un segnale di passaggio verso il tramonto e la fine. Quando nel 1922 ripubblicò un suo precedente scritto universitario – Prussianesimo e Socialismo – la fortuna editoriale gli arrise di nuovo: propose una formula politica di mediazione fra capitalismo e democrazia, rivolta a trasformare la debole repubblica parlamentare conservatrice autoritaria, ripresentando un modello di Stato guidato da un Cesare in armi eletto dal popolo, dove la democrazia sfrenata andava calmierata da un senso di irrazionalità politica che avrebbe rimesso ordine nel caos dei partiti.
Al di là delle ingenue valutazioni che questi temi implicavano e che di là a poco Carl Schmitt avrebbe riordinato a favore del Führer nazista; era un pensiero che affascinava il piccolo borghese vilipeso dall’inflazione e dalla disoccupazione. Lo riportiamo per fare intendere quello che si pensava in quegli anni difficili non solo in Germania, ma anche già nel 1920 in Italia: Noi non abbiamo la possibilità di realizzare questo o quello, ma la libertà di fare ciò che è necessario o nulla. E‘ un compito che le necessità della Storia impongono di per sé, realizzate o con il singolo o contro di esso. Era convinto di questa premessa, che dire nichilista è pari ad un velenosa coperta di spilli su un ammalato di psoriasi; tanto più che si azzardava a determinare la Storia.
Sarebbe stato sufficiente seguire il destino della civiltà e sopratutto della civiltà di razza bianca, quella germanica ovviamente, giunta inesorabilmente al capolinea. Tutto era così perfetto, un lungo viaggio verso la morte. A questo punto, è facile dedurre come la reazione del mondo culturale neopositivista, ma anche cristiano, fu rapida e dura, ma anche purtroppo minoritaria nell’opinione pubblica, estasiata da tale profezia. Invero i neopositivisti insorsero: Otto Neurath nel 1922 pubblicò in Austria un libello di pari impatto oppositivo, il c.d. Anti Spengler. Ci vorrebbero più pagine per mostrane i punti, o meglio, le pietre che scagliò contro tale bastione. Qui possiamo rilevare che Neurath tirò fuori tutto lo scetticismo viennese a quelle teorie, che bollò tipiche di un incolto romantico bavarese. Lo tacciò di razzismo, di trivialità, di opportunismo, per il tono da scienziato adottato, ma di fatto adoperando un linguaggio profetico che era inadatto per uno storico, che invece sulla scia di un Bayle doveva essere uno studioso estraneo al fatto, mai preso dall’evento stesso e mai partigiano della realtà apparentemente critica.
Il metodo di Spengler non era né cartesiano, né galileiano, non scientifico; ma puramente spirituale, quasi un poeta esistenzialista dolorante. Non uno storico che vaglia i fatti con gli strumenti adeguati, vale dire il metodo statistico e probabilistico legato alla dinamica degli eventi. E qui si inserirono gli storici sociali, con un nostro grande studioso, Gaetano Mosca.
Nel 1937, dopa aver taciuto di fronte al successo del collega tedesco, era già famoso per la sua teoria sulla classe dirigente che aveva quasi venti anni prima influenzato perfino Max Weber. Nella sua Storia delle dottrine politiche rilevava che gli scritti di Spengler errano sul presupposto di credere astrattamente che ogni popolo ha creato una civiltà dotata di regole assolute ed immodificabili che l’hanno portata alla decadenza. Quali? Sforzando teoricamente gli eventi in modo superficiale – come se la decadenza di Roma e della Cina rispondessero alle stesse cause?! – sarebbe stata esiziale la degenerazione della classe nobiliare, guerriera e rurale, alla quale si sarebbe sostituita la classe borghese della città, assumendo con la democrazia la guida dello Stato, appunto la c.d. Civilizzazione! Fenomeno che stava accadendo nella Germania del XX°secolo.
E non casualmente, tale processo necessitato aveva per presupposto la decadenza della razza bianca europea, che proprio con la fine della Grande Guerra stava inevitabilmente degenerando al pari dello Stato prussiano. A questa delirante ed innovativa teoria, Mosca si oppose nettamente sia dal lato del presupposto razziale, sia dal lato metodologico, sia dal lato politico. Mosca non accettava il dato razziale, che in alcuni paesi non aveva avuto tale valenza. Questo era invece proprio avvenuto negli Stati Uniti e ne legittimava la potenza economica e politica. Né sopportava, come Neurath, una decadenza non provata del dato statistico. Poi, dal lato politico è sconcertato: partendo dall’esperienza della storia economica, da perfetto liberoscambista, non vedeva alcuna decadenza nelle società liberali che avessero rispettate le regole liberali parlamentari antimonopoliste, già operative nei paesi anglosassoni. Piuttosto, Mosca vedeva con preoccupazione il permanere nelle costituzioni liberaldemocratiche la pretesa della finzione della Sovranità Popolare, credendo invece che il potere passasse da un gruppo di élite all’altro.
E quindi la causa di degenerazione della democrazia non sarebbe dovuta all’integrazione razziale, quanto alla incessante rinnovazione delle forme di Stato, dalla città-Stato allo Stato nazionale. Dunque era il modo di esercizio del potere che portava a decadenza o sviluppo, dall’alto in basso, o dal basso in alto. Una originale e fattiva linea pratica di studio della classe politica e del modo in cui, dati alla mano, si dovevano verificare e respingere le presunzioni sentimentali di storici molto simili a giornalisti soltanto premurosi di conquistare il pubblico. Gaetano Mosca andrebbe meglio riletto proprio nel momento attuale, dove l’opinione morale e partigiana propongono spesso vie risolutive molto pericolose, proprio perché motivate da paure astratte e da politici che guardano esclusivamente al loro successo personale senza sentire il polso della realtà sociale.