Von der Leyen spinge, Berlino e Roma frenano – e il Parlamento europeo resta escluso
La presidente della Commissione UE parla di “piani precisi” per l’invio di truppe europee in Ucraina, sostenute dagli Stati Uniti. Merz e Pistorius frenano, Meloni ribadisce il rifiuto italiano. Crescono i dubbi sulla legittimità democratica delle mosse di Bruxelles e resta la domanda: chi le ha dato il mandato?
Ursula von der Leyen torna a sorprendere. In un’intervista al Financial Times, la presidente della Commissione europea ha parlato di “piani piuttosto precisi” per l’invio di truppe in Ucraina. Una “chiara roadmap” sarebbe già in fase di elaborazione: una forza multinazionale, sostenuta dagli Stati Uniti con sistemi di comando, sorveglianza e intelligence. Non un contingente simbolico, ma “decine di migliaia di soldati europei” schierati a difesa di Kiev.
Eppure, a Berlino l’entusiasmo è stato subito smorzato. Il cancelliere Friedrich Merz ha dichiarato senza mezzi termini: “Nessuno sta parlando, in questo momento, di truppe di terra in Ucraina”. Un messaggio rafforzato dal ministro della Difesa Boris Pistorius, secondo cui ogni discussione sul dispiegamento avrebbe senso solo “quando tutte le parti si troveranno davvero al tavolo delle trattative”. Tradotto: Von der Leyen non è nemmeno titolata a parlarne.
Anche da Roma è arrivato un secco no. La premier Giorgia Meloni, interpellata più volte sul tema, ha confermato la linea del governo: sostegno politico ed economico a Kiev sì, ma nessun soldato italiano sul campo. Per Palazzo Chigi l’idea di una “coalizione dei volenterosi” è inaccettabile, perché significherebbe varcare una linea rossa che Mosca non tollererebbe.
Il contrasto è evidente. Da una parte la Commissione europea, che sull’onda di un presunto “stato d’urgenza” rilancia l’ipotesi di una missione militare continentale; dall’altra governi come quello tedesco e quello italiano che preferiscono un approccio più prudente: armi e sostegno logistico a Kiev, sì; rischiare vite dei propri soldati, no. Francia e Regno Unito, promotori della cosiddetta “coalizione dei volenterosi”, spingono invece per essere pronti a mettere uomini sul campo. L’Europa, ancora una volta, si mostra divisa.
Secondo Christian Mölling, esperto di difesa del European Policy Centre, Von der Leyen “cerca di alzare la bandiera dell’Europa, pur non avendo in realtà né le possibilità politiche né quelle militari per farlo”. E il nodo è cruciale: senza gli Stati Uniti, con le loro capacità logistiche, di difesa aerea e di attacco a lungo raggio, un’operazione del genere sarebbe poco più che un bluff.
Lo ha scritto di recente anche la Stiftung Wissenschaft und Politik: senza Washington, l’Europa non potrebbe che adottare un approccio “bluff and pray” – schierare forze insufficienti e sperare che Mosca non ne metta alla prova la debolezza. Una strategia giudicata imprudente, persino pericolosa, perché rischia di aumentare le probabilità di un conflitto diretto tra Russia ed Europa.
Claudia Major, analista del German Marshall Fund, è stata chiara: “Senza gli Stati Uniti non ha senso discutere di un dispiegamento, né è possibile garantire una deterrenza credibile”. Per una vera forza di interposizione servirebbero 150.000 soldati occidentali, un numero che da sola l’Europa non è in grado di mettere in campo.
Il metodo di Von der Leyen, del resto, non è nuovo. Già durante la pandemia aveva centralizzato la gestione dei contratti miliardari per i vaccini Pfizer, senza mai chiarire nel dettaglio le condizioni. Oggi la logica si ripete: proclamare l’emergenza, bypassare i Parlamenti, agire in fretta e in solitudine. È accaduto anche con il fondo europeo per la difesa da 150 miliardi di euro, approvato a maggio invocando l’articolo 122 del Trattato UE – che consente di scavalcare l’Europarlamento in caso di crisi.
Non stupisce che lo stesso Parlamento abbia deciso di impugnare la misura davanti alla Corte di Giustizia, con una decisione presa all’unanimità dal suo comitato giuridico. Un segnale chiaro: la frattura istituzionale è ormai profonda.
La questione resta: chi autorizza Ursula von der Leyen a parlare di soldati europei? Non i governi, divisi tra ambizioni e prudenza; non i parlamenti nazionali; non il Parlamento europeo, che continua a essere scavalcato.
Il paradosso è evidente: la presidente della Commissione, mai eletta direttamente dai cittadini, agisce come se fosse il capo di un governo federale europeo – ruolo che l’Unione non ha mai scelto di darsi. Stringe accordi a Washington, promette miliardi in energia e difesa, annuncia futuri schieramenti militari. Eppure, nessun mandato democratico la sostiene.
Il risultato è un continente sospeso tra due spinte opposte: da un lato una Commissione che parla come se avesse già deciso, dall’altro governi – a partire da quello tedesco e da quello italiano – che frenano, paralizzati dal timore delle conseguenze interne ed esterne. Berlino appare imprigionata nella sua tradizionale esitazione, Roma ribadisce con fermezza il suo no.
Il Cremlino, intanto, rifiuta categoricamente qualsiasi presenza militare europea in Ucraina. Senza un vero negoziato, senza un ruolo chiaro degli Stati Uniti e senza una cornice NATO, il progetto di Von der Leyen resta più propaganda che realtà.
Eppure, mentre le tensioni crescono, emerge una verità scomoda: Von der Leyen prende decisioni su guerra, pace e miliardi di spesa pubblica senza alcun reale controllo democratico. La domanda resta sospesa: per chi parla Ursula von der Leyen quando promette miliardi e annuncia truppe in Ucraina? Non certo per i cittadini europei, che non hanno avuto voce in capitolo. Una strada che rischia di condurre l’Unione non verso la sicurezza, ma verso una crisi di legittimità sempre più profonda.