I dati ISMU ,iniziative e studi sulla multi etnicità, spiegano chiaramente che per la prima volta nel 2012 in Italia si sono registrati più emigranti che immigrati, circa 50mila italiani hanno fatto le valige e sono partiti per l’estero. Oggi si tratta di un tipo di emigrazione molto diversa rispetto a quella delle varie ondate tra gli anni 1875 ed il 1975 in cui si abbandonava il nostro paese in cerca di un lavoro e di un futuro migliore. Gli emigranti di allora appartenevano alla fascia più povera della popolazione, mettevano i loro pochi averi nella famosa “valigia di cartone” chiusa con dei legacci di spago e partivano all’avventura.
La situazione di coloro che riuscivano ad approdare nei “nuovi mondi” non era poi delle migliori. Ad aspettare quelle persone spesso poverissime e con un grado di alfabetizzazione basso, c’erano spesso molti problemi come il non sapere la lingua e il dover cercare un posto dove vivere, i più fortunati venivano ospitati dai parenti emigrati in precedenza mentre gli altri dovevano accontentarsi di stanze condivise con altre 10 persone. Oltre a queste cose non era da sottovalutare il diffuso sentimento di discriminazioni sociali, che solo in tempi relativamente recenti sembra essersi dissolto.
Arrivati gli anni del boom economico, della nuova ricchezza, gli italiani si cambiarono d’abito, ed il paese si trasformò in breve tempo in una ambita meta di immigrazione. Finalmente erano altri ad emigrare nel nostro paese. Infine, ecco l’ennesimo cambiamento di rotta, la crisi economica scoppiata nel 2008 ha avuto fra gli effetti collaterali quello di trasformare nuovamente l’Italia in un paese di emigranti.
Le prime avvisaglie si sono avute a partire dal 2010, in cui c’è stato un netto calo fra gli stranieri che entravano e quelli che uscivano dal nostro Paese, tuttavia continuano ad aumentare coloro che decidono di abbandonare l’Italia. Ma oggi però a lasciare il paese non sono più i poverissimi, piuttosto sono soprattutto i giovani laureati, che in patria non riescono a trovare un lavoro adeguato alla propria formazione. È un paradosso che da una parte importiamo giovani stranieri laureati che finiscono per trovare un mestiere poco qualificato, e dall’altra esportiamo giovani cervelli che soltanto all’estero trovano una professione alla loro altezza. La crisi economica ha cambiato radicalmente la scacchiera internazionale.
L’anno scorso l’Aire ha tracciato un identikit degli italiani espatriati: sono oltre 4 milioni, in media trentenni e quarantenni, senza sostanziali differenze tra uomini e donne. Quasi la metà ha una laurea o un diploma. Circa 3500 italiani nel 2013 sono emigrati in Cina, imprenditori, laureati ma anche cuochi, attratti dal boom della ristorazione italiana in Oriente che è sempre più in crescita. L’Asia è la nuova frontiera, nell’ultimo anno gli approdi sono cresciuti di quasi il 20 per cento.
Ma una grande parte si ferma però in Europa, immaginando poi di poter ritornare in Italia. Anche qui però la geografia sta cambiando, un tempo era la Spagna, ad essere invasa, oggi si guarda ad Est, si guarda ad emigrare in Romania, Ungheria, Polonia, Russia e Germania. Nei primi mesi del 2014 oltre 6 mila italiani sono andati ad abitare a Mosca.
Dal 2011, gli italiani che vivono a Budapest sono duplicati. Ma come affrontano gli emigranti il nuovo stile di vita? Le lettere degli emigranti testimoniano le passioni, i pregi, i difetti della loro vita quotidiana e i drammi che si incontrano a vivere così lontani da casa. Il dispiacere più frequente che deve affrontare l’emigrante è spesso la nostalgia, anche se adesso grazie alle nuove tecnologie di comunicazione questa si è un po’ attutita. Grazie ai gruppi di sostegno ai negozi italiani e alla conoscenza di persone che sono nella loro stessa situazione gli emigranti riescono a non distaccarsi del tutto dalla famiglia, dalle abitudini e dai sapori e gli odori della terra tanto amata.
Il lavoro, la cui ricerca aveva determinato la scelta dell’emigrazione ora sembra meno difficile da trovare grazie all’invio di curriculum e spesso ai primi approcci tramite colloqui telefonici o tramite Skype. Ma spesso il problema del lavoro di cui non si parla risiede nel fatto che molti italiani emigranti seppur laureati devono, per mancanza di conoscenza della lingua, lavorare per i connazionali emigrati negli anni ’60, ’70 che spesso approfittano della situazione e offrono lavori in maniera precaria e spesso con paghe misere.
L’adattamento ad una nuova vita, ad una nuova città e ad una nuova vita sociale non è mai facile. E se da un lato l’emigrazione comporta, in linea di massima, per i diretti interessati, un miglioramento delle condizioni economiche e professionali, dall’altro produce un regresso da un punto di vista sociale, determina un conflitto culturale con cui l’emigrato si trova a convivere sia nel Paese di emigrazione sia quando ritorna in Italia.
In questi tempi di villaggio globale, però, la figura dell’emigrante italiano ha perso quell’aura di coraggio e di fascino che lo ha da sempre contraddistinto nell’immaginario comune e nella letteratura, a favore di un’immagine più concreta e razionale che ha nella voglia di autoaffermazione il movente principale di emigrazione.