Giurista, scrittore e giornalista, Alessandro Bellardita ha da poco ricevuto un riconoscimento importante: l’ingresso nel PEN Deutschland, la sezione tedesca della storica associazione internazionale che tutela la libertà di parola e di stampa, difendendo giornalisti e autori perseguitati in tutto il mondo.
Con la sua doppia identità culturale e professionale, Bellardita porta una prospettiva originale all’interno del PEN. In questa intervista ci racconta le ragioni della sua adesione e le sfide contemporanee per la libertà di espressione in Europa.
Come è avvenuta la tua adesione al PEN Deutschland? È stata una tua iniziativa o sei stato invitato?
Non è possibile fare richiesta per aderire al PEN Deutschland. Per entrare a far parte dell’associazione, è necessario che un membro della direzione proponga la tua candidatura. A fare il mio nome sono stati Klaus Englert e Petra Reski, questo è almeno quanto mi è stato riferito.
Quali sono stati, secondo te, i motivi per cui sei stato accolto come membro del PEN, che ricordiamo è un’associazione che tutela i giornalisti e gli scrittori minacciati o perseguitati?
Nei miei interventi in conferenze e nelle interviste che ho rilasciato negli ultimi anni, ho sempre posto l’accento sul tema della libertà di espressione. Viviamo in un mondo nel quale le verità scomode vengono combattute e messe a tacere. Anche qui in Germania. Chi parla e scrive ad esempio di mafia, rischia grosso, sia dal punto di vista personale che legale. È un’esperienza che hanno dovuto fare già alcuni giornalisti, come ad esempio Petra Reski. Ultimo esempio è Sandro Mattioli, che nel suo libro GERMAFIA (2024, Westend) ha dovuto anonimizzare i mafiosi protagonisti del suo saggio, altrimenti il suo editore non avrebbe pubblicato il libro.
Ti riconosci in questa missione di difesa della libertà di espressione? In che modo il tuo lavoro giornalistico e letterario, come anche giuridico, riflette questi valori?
La libertà di espressione, in realtà, inizia con il rispetto delle idee altrui. La difesa della parola degli altri è la vera difesa della libertà di espressione. È ovvio che esistono fatti e opinioni. Sui fatti non si discute, ma le opinioni, che si dovrebbero basare sui fatti, devono essere libere come i “pettirossi di combattimento”, per citare un grande poeta della nostra canzone italiana.
Che significato ha per te, come italo-tedesco, essere oggi il secondo italiano all’interno del PEN Deutschland?
Sono figlio della seconda generazione di Gastarbeiter, come venivano chiamati gli italiani che emigrarono in Germania dopo l’accordo del 1955, che tra l’altro quest’anno compie 70 anni. Tutta la mia scrittura, probabilmente, nasce dal sentirmi profondamente straniero, ovunque io mi trovi. Dunque sì, questo dato di fatto suscita in me una certa emozione, anche se faccio fatica a trovare le parole giuste per esprimerla.
Che tipo di attività svolge concretamente il PEN Deutschland per sostenere gli autori minacciati? Hai già avuto modo di partecipare a qualche iniziativa?
Ancora no, in passato ho seguito qualche conferenza, ma non di più. Il PEN innanzitutto aiuta anche economicamente chi si vede costretto a lasciare il proprio paese in quanto perseguitato e si ritrova in Germania. Inoltre organizza tantissimi eventi, prende parola per chi la parola non può più esprimerla e, dunque, con molto coraggio sostiene le “cause perse” sparse in tutto il mondo.
Quali pensi siano le minacce più gravi alla libertà di stampa e di parola?
Sicuramente una delle minacce più gravi è l’odio gratuito e massiccio che viene sparso nei social media da parte dei cosiddetti “leoni da tastiera”, che alimentano certe dinamiche per distruggere psichicamente la persona coinvolta. Il fenomeno dei “troll” è pericolosissimo, in quanto mina la libertà di espressione in maniera diretta e ha una sola e semplice intenzione: colpire la psiche della persona.
C’è un caso recente — in Germania, in Italia o altrove — che ti ha particolarmente colpito per quanto riguarda la persecuzione di giornalisti o scrittori?
Uno dei casi che mi è rimasto impresso è quello riguardante il giornalista Deniz Yücel, rimasto in carcere per quasi un anno sotto il regime di Erdogan, colpevole soltanto di aver fatto il suo lavoro di giornalista, ma che la giustizia turca ha interpretato come “associazione esterna al terrorismo”. Ho incontrato Yücel a Heidelberg nel 2019 e quando gli chiesi cosa sia per lui la libertà mi diede una risposta memorabile: “fumare quanto mi pare”. In carcere infatti poteva fumare soltanto tre sigarette al giorno. Quando un giorno gliene trovarono una quarta nascosta, rischiò la pelle – per una sigaretta!
Che messaggio vorresti dare ai giovani giornalisti e autori che oggi, in vari contesti, si trovano ad affrontare censure o intimidazioni?
È lo stesso messaggio di un giovane giornalista, ucciso dalla camorra a soli 26 anni, vale a dire di Giancarlo Siani: non esiste una democrazia, una società liberale e aperta, senza la libertà di espressione e di stampa. Tutti regimi autocratici e totalitari, infatti, non appena hanno in mano il potere costituito, applicano la censura o addirittura fanno chiudere intere redazioni. Non è un caso…