Nella foto: Kabul, foto Wikimedia

“Quando la scorsa settimana abbiamo scritto sull’Afghanistan, non credevamo che i Talebani sarebbero arrivati a Kabul così presto. Nessuno lo credeva. Ma è avvenuto. Lo Stato afghano, le istituzioni, la politica, l’esercito si sono liquefatti davanti agli „studenti coranici“. Vediamo ogni giorno le scene impressionanti all’aeroporto di Kabul: l’ingorgo di persone disperate, pronte a tutto pur di lasciare il Paese. Con esse, la fuga degli occidentali. Abbiamo sentito le voci delle donne afghane, degli attivisti per i diritti umani, dei giornalisti abituati alla libertà e dei tanti altri cittadini: hanno detto di sentirsi traditi, dopo che avevano sperato con l’Occidente di costruire un nuovo Afghanistan. A che sono serviti questi vent’anni?”.

A rilanciare la domanda è Andrea Riccardi, fondatore della Comunità di Sant’Egidio, in questo articolo per il settimanale “Famiglia Cristiana”.


Qui l’articolo


“È una domanda che brucia a chi ha perso, come alcune famiglie italiane, i propri cari in quella terra, spesso – come ha dichiarato il padre di un caduto – entusiasti della loro missione.
Oggi si conclude una stagione iniziata nel 2001 con la guerra in Afghanistan: non fu solo la risposta all’attacco tragico dell’11 settembre, ma anche l’idea d`una crociata per impiantare la democrazia. Poi venne la guerra in Iraq, altro insuccesso… Vent’anni, l’inizio del XXI secolo, in cui si è creduto nella guerra come strumento per fare un mondo più giusto, ma anche per provare le proprie armi e la propria forza. Ma – come insegna papa Francesco – “ogni guerra lascia il mondo peggiore di come lo ha trovato”. È esperienza della storia. Intanto, gli Stati Uniti hanno perso prestigio nel mondo e perdono peso in Asia. Il gioco, attorno all’Afghanistan, è in tutt’altre mani: Cina, Pakistan, Turchia, Iran, Russia. Forse bisogna cominciare a trarre lezioni da questa storia.
Il rischio è che la reazione delle opinioni pubbliche europee, spaventate dalla rivelazione di debolezza e dall’arrivo dei profughi afghani, sia incline a una politica di chiusura, di fiducia in qualche uomo che fa la voce grossa e rassicura gli spaventati. Non è una politica forte: è invece la scelta per la debolezza. Bisogna fare la nostra parte e credere nei nostri valori. La chiusura dell’Afghanistan, la sorte delle donne e delle bambine di quel Paese, il totalitarismo talebano ci spingono sempre più ad avere fiducia nella libertà e nella democrazia.


Anche Paesi medi come l’Italia possono fare molto. Lo si vede dalla nostra richiesta presenza militare in tante operazioni, che però devono essere accompagnate da una politica attiva.


Che politica facciamo in Iraq, dove sono i nostri militari? E in Libano, pur avendo una notevole presenza? Il fatto che l’Italia non avrebbe potuto far politica in Afghanistan, lontano e estraneo alla nostra storia, lo si vede dal fatto che il nostro ambasciatore a Kabul ha lasciato il Paese, mentre è rimasto il console a coordinare le evacuazioni. Altri Paesi invece hanno ancora l’ambasciatore presente. L’Italia ha una responsabilità diretta nei Balcani, nel Mediterraneo, in alcune aree dell’Africa. Questo impone un pensiero strategico, in cui la presenza militare sia accompagnata da politica, cooperazione, cultura.


Questa è l’ora di una riflessione critica su una politica fatta troppo seguendo l’onda, poco come alleati maturi e responsabili, e dell’aiuto umanitario ai profughi afghani. Se vogliamo che la nostra civiltà non sia sommersa, abbiamo la responsabilità di tener fermo il nostro senso umano, ma anche di costruire una politica internazionale capace di proiettarci nel mondo cui siamo legati dalla storia e dalla geografia”.

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