Alcune riflessioni sulle recenti proteste in Hong Kong

Nei mesi passati i media mondiali hanno puntato la loro attenzione alla città di Hong Kong, che è una regione amministrativa speciale della Cina. Come tutti sanno Hong Kong divenne una colonia dell’Impero britannico dopo la prima guerra dell’Oppio (1839-1842), per poi tornare sotto la supervisione Cinese nel 1997. In base al principio “un paese due sistemi”, Hong Kong possiede un sistema politico e giudiziario diverso dalla Cina continentale. Dopo il rientro nella sfera d’influenza cinese, malgrado tutte le rassicurazioni fatte dal governo cinese, il regime democratico che formava la base politica della città ha subito molte restrizioni. La popolazione non può liberamente scegliere il capo del governo, ma è costretta a scegliere candidati precedentemente approvati da Pechino.

Questo restringimento delle libertà democratiche ha causato molte proteste, la più famosa delle quali è quella chiamata “protesta degli ombrelli” avvenuta nel 2014. Anche le recenti proteste sono cominciate per difendere l’autonomia politica e soprattutto giudiziaria di Hong Kong. I suoi abitanti sono spontaneamente scesi in strada iniziando una protesta che li vede, almeno fino a questo momento, come parziali vincitori.

La popolazione ha deciso di protestare per opporsi a una legge che la leader di Hong Kong, Carrie Lam, era intenzionata ad approvare. Questa legge avrebbe consentito al governo della città di estradare chi è sospettato di crimini gravi. L’emendamento è stato proposto dopo che l’anno scorso la città non era riuscita a estradare a Taiwan un cittadino 19enne di Hong Kong accusato di aver ucciso la ragazza durante una vacanza a Taipei, poiché le leggi non lo permettevano. Se l’emendamento fosse stato approvato, oltre a questo ragazzo, sarebbero potuti essere processati nei paesi vicini – per esempio, in Cina, a Taiwan o a Macao – coloro che sono accusati di reati punibili con una pena massima di almeno sette anni.

Il timore dei manifestanti e delle associazioni per i diritti umani era che la legge potesse punire anche i dissidenti politici e persino chi si fosse espresso in maniera critica nei confronti della Cina e del governo di Pechino. Questi sospetti si sono concretizzati dopo che un membro dell’Ufficio politico del Partito comunista, ha detto che questo provvedimento avrebbe potuto riguardare anche i sospettati che, pur vivendo ad Hong Kong, avessero messo in pericolo la sicurezza di Pechino. Uno dei timori più grandi è che chi venisse sospettato di un reato potrebbe essere processato secondo un sistema giudiziario molto diverso da quello in vigore a Hong Kong. Nella città, per esempio, nessuno può essere condannato alla pena di morte che è stata abolita nel 1993; in Cina, invece, questo sarebbe possibile.

I manifestanti hanno considerato questa legge come un segno che il governo di Hong Kong è di fatto schiavo delle richieste cinesi. La prima protesta è avvenuta il 31 marzo ed Il movimento ha acquisito maggiore slancio a seguito di una seconda manifestazione il 28 aprile. A partire da giugno, si sono susseguite molte manifestazioni, alcune delle quali hanno attirato centinaia di migliaia di persone, milioni secondo alcune fonti. Queste proteste si sono svolte in un clima molto pacifico, e questo è durato fino alla manifestazione del 12 giugno, il giorno in cui il governo aveva tentato di presentare il disegno di legge per la sua seconda lettura. In questa occasione, le proteste fuori dal quartier generale del governo si sono trasformate in violenti scontri che la polizia ha sedato con modi brutali e al limite della tortura. A partire da questa manifestazione, la responsabilità per la brutalità della polizia è diventata una delle richieste dei manifestanti nelle successive proteste. La successiva marcia di protesta del 16 giugno ha visto la partecipazione di quasi 2 milioni di persone.

Il 9 luglio, il capo del Governo Carrie Lam ha dichiarato “morto” il disegno di legge sull’estradizione, usando un’ambigua frase cantonese che può essere tradotta come “morire di una morte pacifica”, ma non ha assicurato, tuttavia, che il disegno di legge sarebbe stato completamente ritirato o che qualsiasi altra richiesta dei manifestanti sarebbe stata presa in considerazione. Da luglio, l’ondata di proteste è continuata e alcune manifestazioni si sono intensificate e trasformate in violenti scontri tra polizia, attivisti pro-governativi, pro-Pechino e residenti locali. I manifestanti, tramite i social media, hanno più volte condannato l’uso gratuito di violenza da parte della polizia anche su cittadini inermi e addirittura minori e bambini.

Finalmente, agli inizi di settembre Carrie Lam ha annunciato il ritiro della legge sull’estradizione. Se da una parte questa decisione ha interrotto le proteste di piazza, dall’altra non ha accontentato totalmente i manifestanti che chiedevano, oltre al ritiro della legge che gli arrestati durante le manifestazioni (si parla di 1200 persone) non fossero processati, che i manifestanti non fossero più chiamati “rivoltosi”, chiedono inoltre la formazione di una commissione indipendente che indaghi e giudichi il comportamento dei poliziotti, e soprattutto elezioni libere e non controllate da Pechino.

La situazione attuale si presenta molto complessa ed instabile. Le violenze perpetrate dalla polizia, con l’appoggio del governo e col supporto esterno del governo Cinese, hanno causato nella popolazione una perdita di fiducia quasi totale nelle istituzioni e un senso di paura e incertezza che è condiviso dalla maggior parte della popolazione. Molte persone infatti, pensano che l’annuncio fatto dalla Lam sia una bugia fatta per calmare la situazione ed evitare che le proteste e la loro repressione le fuggisse di mano.

Sicuramente ha impressionato la spontanea partecipazione popolare, e soprattutto giovanile, alle proteste. Credo possa dare un buon esempio di quanto la democrazia, seppur perfettibile, sia preziosa, e di come ci si renda conto di quanto sia importante solo quando si sia persa.

Da un altro punto di vista, è interessante notare il totale silenzio dei governi occidentali riguardo queste proteste.

L’unico governo che ha chiesto di fermare le violenze sulla popolazione è stato quello statunitense, a cui il governo cinese ha diplomaticamente risposto di farsi gli affari propri e di non immischiarsi in situazioni interne del paese. Non un buon biglietto da visita per il governo di Pechino, che vuole presentarsi come protagonista del nuovo ordine politico mondiale.

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