Focus: 70 anni dagli accordi bilaterali tra Italia e Germania
“La lingua in cui viviamo non è una lingua che abbiamo in continuazione a disposizione come la lingua madre ma è una lingua con cui tutti i giorni ci confrontiamo per renderla sensibile alla nostra diversità” (G.C.Chiellino).
Gino Chiellino è autore, poeta, studioso di letteratura interculturale, professore emerito. La primavera scorsa è uscito il suo saggio Verso una memoria condivisa, edito da Centro Altreitalie, un omaggio letterario che nasce in occasione dei settant’anni dagli accordi bilaterali tra Italia e Germania per il reclutamento e collocamento di lavoratori italiani e che dipana il filo rosso della storia di questi 70 anni attraverso la letteratura interculturale. Il saggio è stato presentato lo scorso maggio a Dortmund da Maddalena Tirabassi, direttrice di Cento Altreitalie in dialogo con Gino Chiellino, in una serata organizzata dal locale Comites. Verso una memoria condivisa è di prossima pubblicazione anche in lingua tedesca.

“Questo mio saggio non è altro che il tentativo di voler salvaguardare le fonti che hanno portato alla costruzione di una memoria dell’immigrazione italiana dal 1955 ad oggi, perché saranno i nipoti a chiedere “ma come è iniziato il tutto?”.
“Il saggio si compone di un’indagine di come si è sviluppata la lingua tedesca nei confronti della diversità (…) come la letteratura tedesca ha reagito all’arrivo degli immigrati”.
Nato in Calabria nel 1946, Gino Carmine Chiellino, studia alla Sapienza di Roma letteratura e sociologia. Per la tesi di laurea va in Germania, in una fabbrica metalmeccanica per conoscere le condizioni di lavoro degli operari italiani. È il 1969. Nel 1970 torna in Germania e ci resta. Prosegue gli studi, consegue il dottorato di ricerca e intanto scrive, si dedica alla poesia. Nel 1980 con scrittori e artisti interculturali fonda il gruppo PoLiKunst. Nel 1987 lui e Franco Biondi ricevono il premio Adelbert-von-Chamisso (assegnato ad autori che scrivono in tedesco ma non sono madrelingua). Nel 1993 Chiellino consegue l’abilitazione in letteratura comparata all’università di Augsburg. Insegna come docente universitario fino al 2009. Ha all’attivo molte pubblicazioni (p.e. Am Ufer der Fremde, 1996; Interkulturelle Literatur in der Bundesrepublik, 2000; Das Große ABC für interkulturelle Leser, 2015). Da studioso ha avviato un campo di ricerca sulla letteratura interculturale in Europa, liberando autori e autrici interculturali dall’etichetta angusta e riduttiva di letteratura di migrazione. Nel 2018 l’università Viadrina di Francoforte sull’Oder gli ha dedicato la Biblioteca Chiellino e il Centro studi di letteratura interculturale. Ulteriori informazioni si possono trovare sul sito di Gino Carmine Chiellino.
Con Gino Carmine Chiellino parliamo del suo ultimo saggio, di letteratura interculturale, del progetto di integrazione europea, dei 70 anni degli accordi bilaterali fra Italia e Germania.
Che cosa direbbe di sé per presentarsi in questa intervista?
Data la mia età posso senz’altro affermare di avere realizzato il mio progetto di vita non soltanto da studioso e scrittore interculturale, ma anche creando insieme ad una partner di Francoforte una famiglia interculturale. Nel frattempo le due figlie e il figlio hanno le loro famiglie e così ci ritroviamo comunità interculturale di 15 persone che vive in diverse regioni del centro Europa, da Londra a Monaco di Baviera, e che potrebbe raffigurare il percorso di integrazione europea iniziato nel 1955. Sono senz’altro ben lieto, ma per nulla “trionfalista” e non ho nessun conto sospeso con l’Italia. So benissimo, come lo sa anche Lei, che vivere fuori dalla propria cultura richiede un impegno costante e diverso rispetto a quello di chi continua a vivere al suo interno, ma i risultati sono gratificanti.
In che senso è un impegno costante?
È un impegno quotidiano e costante perché la lingua in cui viviamo non è una lingua che abbiamo a disposizione come la lingua di appartenenza ma è una lingua con cui ci confrontiamo tutti i giorni per renderla sensibile alla nostra diversità.
Il suo saggio Verso una memoria condivisa. Un omaggio letterario, in occasione dei settant’anni dagli accordi bilaterali fra Germania e Italia, ricostruisce la storia di questi 70 anni attraverso il filo rosso della letteratura interculturale. Ma che cosa intende con memoria condivisa? In altri contesti la memoria condivisa è considerata un’utopia.
Chiariamo innanzitutto la qualità del saggio. La presenza dei testi letterari può indurre a pensare che si tratti di un’antologia il che non lo è affatto perché il saggio si compone di un’indagine di come si è sviluppata la lingua tedesca nei confronti della diversità. Questo è il filo conduttore importantissimo che sottolinea il difficile lavoro all’interno della lingua tedesca di riuscire a autosensibilizzarsi per parlare in un modo diverso di chi è emigrato. Faccio un esempio: se noi partiamo da due espressioni dell’epoca degli accordi: “Deutschland ist kein Einwanderungsland” e “ungelernte Arbeitskräfte”, entrambe caratterizzano la chiusura totale alla diversità. Poi si è parlato brevemente di Migrationshintergrund, una categoria che si è rivelata subito una discriminante inutile, offensiva, e l’ho scritto nel saggio. E in realtà è stata rimangiata perché chi la usava per le statistiche non usa più il termine Migrationshintergrund ma parla di Migrationsgeschichte. Non è che sia un grande vantaggio però mostra senz’altro la tendenza a fare attenzione a come si parla degli immigrati.
Nel saggio c’è un filone in cui si ricostruisce come la letteratura tedesca ha reagito all’arrivo degli immigrati con romanzi, poesie, storie, film, con dei pezzi teatrali. Anche questo fa parte della memoria, come ne fa parte lo sviluppo della lingua. Detto questo, aggiungo che il tema centrale è lo sviluppo della comunità italiana che è partita da una comunità di quattro milioni di ingressi e ne sono rimasti 600.000-700.000, dei quali 300.000 all’incirca sono nati qui in questi settant’anni. Questa enorme fluttuazione non dice altro che l’immigrato non viene “spostato” per necessità economica, ma è una persona che decide di fermarsi e di costruirsi un futuro. Anche questo aspetto fa parte della memoria che deve essere condivisa.
Allora che cos’è la memoria condivisa? È un tentativo affinché non vengano negate, annullate le esperienze di immigrati, come già avvenuto in passato, perché per esempio degli italiani presenti in Germania nell’Ottocento abbiamo poche informazioni. Così come sono poche le informazioni sugli italiani prima del nazismo. In questi casi si è persa veramente la memoria. Ecco allora che questo mio saggio non è altro che il tentativo di voler salvaguardare le fonti che hanno portato alla costruzione di una memoria dell’immigrazione italiana dal 1955 ad oggi, perché saranno i nipoti a chiedere “ma come è iniziato il tutto?” e hanno il diritto di sapere per non trovarsi in un vicolo cieco. Condivisa potrebbe diventare se l’esperienza entrerà a far parte del canone scolastico perché quella è la via per la quale si tramanda la memoria. Se viene esclusa dal canone scolastico è chiaro che sarà difficile creare una memoria condivisa.
La memoria condivisa chiama in causa la letteratura intercultuale. Che cosa s’intende per letteratura interculturale?
Le letterature nazionali, che conosciamo un po’ tutti, hanno la funzione primaria di promuovere la memoria storico-culturale di un Paese.
La letteratura interculturale da parte sua non nasce da una memoria storico-culturale ma nasce con l’impegno di intravedere come potrebbe essere il futuro del Paese in cui si formano le comunità di immigrati. L’aggettivo interculturale non è la somma di due culture. Interculturale è ciò che scaturisce dall’incontro di culture diverse. Ai miei figli ho sempre spiegato che loro non sono la somma della cultura italiana e di quella tedesca ma che con loro è nato un qualcosa di diverso all’interno dell’Unione Europea. Intercultura è pensare a qualcosa che avviene ma anche a come potrebbe avvenire. Nei romanzi interculturali vengono raccontate e analizzate storie di incontri con tra culture diverse alla ricerca di modelli di vita interculturale.
Quindi quando Lei parla di memoria condivisa intende non soltanto della comunità italiana al suo interno, ma del Paese Germania?
Non è quella che si chiama Vergangenheitsbewältigung, fare i conti con il passato. Intendo tutt’altra cosa perché siamo alla quarta generazione di italiani in Germania e la quarta generazione ha difficoltà a collegarsi biologicamente con i fondatori della sua memoria interculturale. Quindi si tratta di formulare una memoria valida non solo per la comunità degli italiani ma condivisa dalla società tedesca.
La letteratura interculturale allora cerca di trovare e dare parola a un contesto socio culturale che non è il proprio, non è quello di origine. E non dipende dalla lingua che si usa per scrivere?
Pensando a scrittori interculturali classici come Joseph Conrad, Vladimir Nabokov, Héctor Bianciotti, Theodor Kallifatides, tra gli altri, e se mi sono scelto una lingua a me estranea per diventare scrittore, ovvero se non scrivo nella mia lingua di appartenenza, il lavoro che faccio da scrittore è quello di introdurre nella lingua scelta una memoria storico-culturale che non le appartiene. Per poterlo fare devo crearmi una lingua sensibile alla mia diversità. Pertanto il lavoro sulla lingua è determinante ed è ciò che rende l’opera interculturale. Ma lo è anche se si scrive nella lingua di appartenenza, perché la strategia è la stessa, come ha fatto Marisa Fenoglio con il romanzo Vivere altrove dove i suoi personaggi italiani vivono in un contesto tedesco, 24 ore su 24 ore. Lei ha creato un italiano sensibile alla diversità culturale tedesca in cui vivono i suoi personaggi. La lingua costituisce la base della letteratura interculturale degli scrittori italiani in Germania.
E solo secondariamente ha a che fare con i contenuti?
In parte sì, nel senso che i temi trattati sono sempre progettuali, temi con cui si studiano o si sperimentano modelli per capire se le società europee si sviluppano in una direzione interculturale o se siamo già nel riflusso per cui tutti gli sforzi fatti per portare avanti una sensibilità liberatoria nei confronti del diverso vengono, come dire, rimangiati, riportati indietro e quindi si torna alla monoculturalità.
Ho chiesto per curiosità alla AI (intelligenza artificiale) che cos’è la letteratura interculturale? (Bisogna metterla alla prova questa AI per capire come usarla). Ebbene, mi ha risposto che ora ci sono tanti scrittori e scrittrici apprezzati, conosciuti, e che questa letteratura è diventata una componente imprescindibile della letteratura tedesca. Pensando a Lei, una letteratura interculturale, arrivata, integrata in quella nazionale, è una contraddizione in termini. O no?
Ma in parte credo che sia vero, per il semplice motivo che se noi partiamo dall’idea che lo scrittore interculturale è quello che si sceglie una lingua per essere scrittore, e andiamo a vedere nel quadro della letteratura contemporanea, in Germania, ci sono tantissimi scrittori che hanno un nome straniero e vengono considerati interculturali, che però non lo sono per il semplice motivo che il loro tedesco non si differenzia da quello degli scrittori loro coetanei. Non si sono scelti una lingua per diventare scrittori, ma vi sono nati insieme ai loro coetanei tedeschi. Se nei loro romanzi raccontano storie che potrebbero essere interculturali, questo è tutto un altro discorso, ma non li rende scrittori interculturali.
Che costoro siano accettati, anche apprezzati più di quanto siamo stati noi ha a che fare con la percezione fuorviante dei madrelingua, secondo i quali gli immigrati sono di per sé non diversi ma deficitari. E deficitario è soprattutto il loro tedesco. Gli scrittori di seconda e terza generazione vengono accettati purché scrivano un tedesco rispettoso della tradizione letteraria tedesca. Ma tutto ciò non ha nulla a che fare con la letteratura interculturale.
Siamo allora in una fase di riflusso della monoculturalità?
Credo di sì, perché ci sono dei segnali forti che indicano che tutti i nostri sforzi sono stati, come dire, un po’ discreditati. La “Multikulti” è fallita, se si pensa a tutta quella letteratura banalizzante di fiabe e romanzi orientali, a tutta quella letteratura del tipo Maria, ihm schmeckt’s nicht! Se si pensa a tutto ciò, mi pare ovvio che si vuole banalizzare una realtà complessa e difficile, fatta di problemi ai quali la società tedesca contemporanea non riesce a dare delle risposte giuste. Quindi rendere triviale è la strategia principe per ritornare alla monoculturalità.
Lei si occupa di letteratura interculturale sia come autore che come studioso. Questa doppia veste, non inusuale però neanche diffusa, dipende forse dal fatto che la letteratura interculturale era ed è ancora oggi una letteratura progettuale e che quindi ha bisogno di un metadiscorso, una riflessione su di essa che l’accompagni e ne sostenga le ragioni?
Il mio modello di riferimento è stato il Gruppo 47 che si è formato subito dopo la fine della guerra nella Repubblica federale. Il gruppo era composto da scrittrici e scrittori che si incontravano per ridare dignità ed espressività alla lingua tedesca. Agli incontri partecipavano anche non scrittori che in seguito sono diventati i critici letterari più importanti per la letteratura tedesca del Dopoguerra.
Quando nel 1980 abbiamo formato il nostro gruppo di scrittori e artisti interculturali, la PoLiKunst, avendone le premesse, ho deciso di seguirne lo sviluppo con delle riflessioni critiche esattamente come era successo all’interno del Gruppo 47. Devo dire però che ero ben predisposto perché insegnavo letteratura all’università di Augsburg e quindi era la mia professione.
Ritornando al saggio Verso una memoria condivisa, Lei infine guarda al futuro (Verso una …), se si pensa in particolare alla citazione da Karl Popper sulla responsabilità del futuro che ha scelto. Allora in questa prospettiva, da intellettuale emigrato, il suo saggio ha un’attualità dirompente perché nelle sue considerazioni sulla lingua, sul senso di deficit sentito da chi arriva da un altro contesto culturale, si possono riconoscere anche gli immigrati che arrivano in Italia. Il suo saggio potrebbe essere anche un contributo a disinnescare le paure verso i migranti perché la realtà di quattro generazioni di italiani in Germania ha prodotto qualcosa di diverso da quelle paure che anche allora c’erano.
L’intento della mia ricerca, del mio saggio è quello di presentare la comunità italiana in Germania come l’impegno del singolo per realizzare il suo progetto di vita, da quello più semplice del giardiniere, alla donna delle pulizie fino agli studiosi che fanno ricerca nei diversi campi delle scienze, senza voler tralasciare nulla di tutto quello che si svolge nei diversi strati sociali. L’immigrazione italiana in Germania è stata un’immigrazione regolata dall’accordo bilaterale e per di più inserita nel progetto europeo che ha portato alla nascita dell’Unione Europea. Questo non viene tenuto presente abbastanza quando si parla della comunità italiana, perché ci sono persino membri della comunità che continuano a definirsi stranieri. Siamo di fronte ad una solidarietà controproducente perché il lavoro fatto da noi tutti è un modello di partecipazione, di appartenenza, non di integrazione, e come tale va rispettato, fatto presente e non banalizzato con: “ich bin Ausländer”.
Quando dice il lavoro che abbiamo fatto noi si riferisce da una parte al suo lavoro di intellettuale o a quello di tutte e tutti?
Di tutti, dai piastrellisti, ai giardinieri, ai pizzaioli e così via. Di tutti e di ognuno di noi, che è rimasto e che si è detto “rimango perché voglio realizzare qui il mio percorso di vita attiva, impegnandomi per il mio futuro e quindi per il futuro della società in cui vivo”.
Che poi è il progetto europeo.
Sì, esattamente.