Tra i tanti fatti politici e di cronaca che danno origine a discussioni a volte anche violente, c’è ora l’intenzione del Ministro dell’Immigrazione, l’italocon-golese Cécile Kyenge, non solo di abolire il reato di clandestinità, ma pure d’instaurare il cosiddetto diritto di suolo che permette al forestiero che nasce nella Penisola di diventare Italiano. Un’idea, la sua, che ha suscitato molti commenti, positivi e negativi, facendo riaprire, dopo un paio di anni, la discussione sui problemi migratori e, di conseguenza, riaccendendo il contrasto verbale tra favorevoli e contrari. E’ vero che la crisi economica ha profondamente ridotto il numero degli immigrati, sia clandestini sia quelli che vedono l’Italia come Nazione in cui vivere: desiderio, questo testimoniato dalla crescita dei ricongiungimenti familiari, dei matrimoni misti, delle iscrizioni scolastiche e dalle domande di cittadinanza. Ma ciò comporta, come afferma il Card. Angelo Scola, una “mescolanza di persone e culture che va gestita”. Indubbio, tra l’altro, che gran parte di questi stranieri si siano rivelati una risorsa per il Paese, in quanto più disponibili a svolgere lavori umili e faticosi che, invece, i giovani Italiani tendono ad evitare, anche se disoccupati. Ma, proprio perché l’Italia non è ancora uscita dalle gravi difficoltà economiche e finanziarie dovute al notevole incremento fiscale e del debito pubblico, c’è da chiedersi se era veramente opportuno istituire ora un Ministero dell’Immigrazione, con quel che costa, da noi, ogni dicastero. Senza contare che l’abolizione del vigente ius sanguinis, che riconosce la cittadinanza a chi nasce da genitori italiani, attribuirebbe al neo cittadino, indipendentemente dall’integrazione ed acquisizione della cultura e dei princìpi nazionali, la pienezza dei diritti civili e politici, permettendogli così, una volta raggiunta la maggiore età, di votare.
Non a caso gli Stati hanno adottato l’una piuttosto che l’altra opzione in base a criteri razionali. Quelli coinvolti da forti movimenti immigratori (Stati Uniti, Argentina, Brasile, Canada, ecc.) e, al contempo, dotati di un territorio in grado di ospitare una popolazione maggiore di quella residente, hanno preferito lo ius soli. Al contrario, lo ius sanguinis, che si basa sui principi di sangue, etnia e lingua, è preferito dai Paesi nei quali si è verificata una forte emigrazione: vige, infatti, oltre che in Armenia ed Israele, in tutte le Nazioni europee, con l’unica eccezione della Francia ove lo ius soli vige dal 1515. Alcune Nazioni hanno previsto facilitazioni per i figli di immigrati residenti: in Germania, per esempio, la legge concede il diritto alla cittadinanza al momento della nascita, se almeno uno dei genitori vive legalmente in territorio da almeno 8 anni. L’Italia, invece, ha regole più severe in materia: si diventa cittadini dopo due anni di matrimonio con un Italiano o dopo un certo numero di anni di residenza (10, se cittadino extracomunitario; 4 se europeo). La Svizzera è più restrittiva: la naturalizzazione è possibile solo dopo 12 anni di residenza stabile.
I cittadini formano il popolo che gode dei diritti politici (eleggere ed essere eletti), di quelli civili (tra gli altri, la libertà di movimento, di associazione, di riunione, di coscienza e di religione, nonché l’uguaglianza di fronte alla legge) e dei sociali (salute, lavoro, istruzione, eccetera). I residenti creano la popolazione che non vota ma gode, per effetto di impegni internazionali multilaterali o bilaterali, dei diritti civili e sociali. Certo, il processo di globalizzazione attualmente in atto richiede una modifica della legge vigente, ma concedere la cittadinanza italiana ai neonati stranieri rischia di diventare pericoloso. Perché questi, specialmente i Musulmani, figliano molto più dei connazionali; ma anche per la mancanza di una reale integrazione che solo l’istruzione e l’educazione possono garantire. Senza contare che applicare lo ius soli comporterebbe la perdita della cittadinanza ai discendenti dei nostri emigrati. Meglio prevedere altre soluzioni: ad esempio, valutare anche il tempo trascorso in Italia dai genitori in qualità di immigrati regolarmente registrati, nonché l’acquisizione della lingua nazionale e l’osservanza delle leggi. Regime normativo, questo, che ci allineerebbe agli Stati europei nei quali non si attende necessariamente la maggiore età di chi vi è nato, ma si soppesano i modi di vivere di chi li ha messi al mondo e dei parenti e dove il clandestino è rimandato al proprio Paese d’origine. In effetti, non ha senso ritenere che lo ius soli comporti una “piena partecipazione alla comunità da parte di ragazzi che sono nati in Italia, che parlano italiano e frequentano le scuole italiane, che si sentono Italiani, ma di fatto non lo sono”: i neonati non parlano e non frequentano corsi linguistici!!! Tanto meno che ciò “significherebbe un arricchimento culturale ed economico per l’Italia e un segnale di reale integrazione”. Più ragionevole il parere di chi, come Magdi Cristiano Allam o Pier Ferdinando Casini, afferma che “la cittadinanza italiana deve essere data solo a chi dimostra di volerla davvero … dopo un articolato processo che comprenda un adeguato tempo di residenza sul territorio, la conoscenza della lingua, della cultura del nostro Paese e un’adesione ai suoi valori di fondo, altrimenti non si produce integrazione ma disgregazione dell’identità nazionale”. Se è giusto dare una mano, facilitando l’acquisizione della cittadinanza, a quanti hanno dimostrato di volersi integrare, è inopportuno dare segnali di cedimento sul fronte della sicurezza e dell’ordine pubblico. Questa non è né può essere una battaglia politica o razziale, ma solo di buon senso.