Alla vigilia di Pentecoste, sabato 19 maggio si è svolta presso la Missione Cattolica Italiana di Francoforte una riunione organizzata dalla redazione del Corriere d’Italia centrata sulla conferenza tenuta dal Dr. Alessandro Bellardita, giudice presso l’Amtsgericht di Karlsruhe e collaboratore del nostro giornale da oltre dieci anni, sul tema: „Nuovi Media e informazione: come distinguere le Fake News“

In un sistema che si definisce democratico la stampa e, in generale, i media dovrebbero essere il quarto potere, il cosiddetto “cane da guardia” del governo. Una crisi del quarto potere, dunque, implica una crisi della democrazia stessa. Il fenomeno delle fake news è uno dei sintomi più evidenti della crisi della stampa e dei media: se il lettore non può più fidarsi della veridicità della notizia, della credibilità di una fonte oppure dell’autenticità di una foto, finirà non solo a dubitare dei media, ma addirittura rinuncerà, prima o poi, ad informarsi. Oppure, inizierà a disinformarsi fidandosi di siti e fonti del tutto fuorvianti. Un esempio allarmante della crisi della democrazia dovuta alle fake news ne è il Brexit. Stando a quanto riporta il giornalista britannico Jon Danzig, la stragrande maggioranza delle notizie relative all’Unione Europea che circolavano nei social media e nei maggiori tabloid prima del referendum erano inventate di sana pianta oppure contenevano almeno in parte notizie false. Un fenomeno – ed esempio di cattivo giornalismo – che risale agli anni ottanta, quando i primi tabloid britannici hanno iniziato a sparare a zero contro le istituzioni europee pur di vendere una copia in più, spacciando l’Europa come un colosso burocratico che sperpera i soldi dei poveri cittadini inglesi. Il risultato di questa campagna contro l’Ue lo conosciamo tutti: l’inizio della più grave crisi democratica nell’occidente dalla seconda guerra mondiale ad oggi.

Il cambiamento del mondo dell’informazione

“I fatti separati dalle opinioni”. Era questo il motto del mitico Panorama di Lamberto Sechi, inventore di grandi giornali e grandi giornalisti. Col tempo, quel motto è caduto in prescrizione, soppiantato da un altro decisamente più pratico: “Niente fatti, solo opinioni”. I primi, insomma, non devono disturbare le seconde. Giornalisti – si fa per dire – come Giuliano Ferrara hanno potuto attaccare la magistratura usando termini come quello del “giustizialismo” o “squadrismo giuridico” senza basarsi sui fatti. Opinionisti – si fa per dire – come Vittorio Sgarbi hanno iniziato ad aggredire tutto e tutti senza citare mai i fatti. Senza fatti si può sostenere tutto e il contrario di tutto. Oggi, tuttavia, la già ingarbugliata situazione si è complicata ulteriormente, stravolgendo completamente l’intenzione stessa del buon giornalismo, che dovrebbe essere quella di informare ed arricchire il dibattito politico-culturale. Con l’arrivo delle fake news il nuovo slogan potrebbe essere il seguente: “Costruiamo i fatti che vanno bene alle nostre opinioni”. E il dibattito politico-culturale rischia di diventare una farsa, una realtà che dovrebbe far preoccupare non solo gli addetti ai lavori ma anche i lettori e la classe politica che si ritiene democratica.

Ma cosa sono le fake news?

Facciamo un esempio pratico: era il 25 febbraio 2017, quando alle quattro di pomeriggio ad Heidelberg un ricercatore trentaseienne squilibrato si schiantava con una vettura noleggiata contro una colonna nel pieno centro del Bismarckplatz, uccidendo un anziano in bicicletta e ferendo gravemente due donne. Fin dall’inizio, a poche settimane dall’attentato di Anis Amri a Berlino, in rete circolarono notizie false, secondo le quali si sarebbe trattato di un attentato di matrice islamica, architettato da un profugo siriano. C’era addirittura chi sosteneva di essere stato presente ed aver udito ripetutamente gridare “Allahu akbar!”. La polizia locale, con un tweet, aveva prontamente smentito: “Una volta per tutte: il sospettato è un tedesco senza origini straniere”. Ma le notizie false continuavano imperterrite a girare e formavano una realtà parallela, condita di commenti xenofobi e accompagnata dai complottisti di turno. Non c’era niente da fare, la rete aveva ormai la sua realtà, i suoi fatti alternativi – come avrebbe detto l’ex consigliera di Donald Trump Kellyanne Conways.

Questo esempio di fake news, che ho potuto seguire dal vivo in quanto magistrato ad Heidelberg, la dice lunga sulla struttura di una fake news. Provando a definirla positivamente, dobbiamo partire da una semplice traduzione letterale: le fake news altro non sono che notizie false. La particolarità sta però nella loro soggettività: le fake news sono piazzate e usate strategicamente e sistematicamente da piattaforme (digitali e non) per raggiungere gruppi specifici di utenti, con lo scopo di attirare l’attenzione e rafforzare l’opinione pubblica in specifiche “camere dell’eco” oppure di generare consensi mediatici a scopo di lucro. Vale a dire: chi pubblica una fake news lo fa sempre con un intento ben preciso, trasformando la piattaforma che diffonde le notizie in vere e proprie armi di distrazione di massa.

Per capire meglio questo termine bisogna, tuttavia, tracciare anche una definizione negativa. In altre parole: bisogna chiedersi cosa non sono le fake news, da cosa, insomma, dobbiamo distinguerle:

Esiste, specialmente in Italia, tutto un mondo fatto di dietrologismi e teorie del complotto. Le fake news hanno un rapporto particolare con questo vasto spazio di controinformazione. La correlazione possiamo formularla come segue: le teorie del complotto, come ad esempio quella che aggira attorno all’omicidio-suicidio dei banchieri Michele Sindona e Roberto Calvi, oppure ancora – per restare nell’ambito tedesco – la morte misteriosa dell’ex ministro-presidente dello Schleswig-Holstein Uwe Barschel, si servono di false notizie. Ma non tutte le fake news vengono pubblicate con l’intento di alimentare una teoria del complotto. Umberto Eco, che nel suo ultimo romanzo “Numero zero” si è ulteriormente dedicato a questo tema, direbbe che in primo luogo senza notizie false non potrebbero esistere le teorie complottiste e che, in secondo luogo, le teorie del complotto in sé, non sono una falsa notizia ma – appunto – una teoria che si basa sul principio che nulla accade per caso e sostiene che il mondo è in mano di poteri occulti.

Una linea di demarcazione si può tracciare, invece, con le notizie false propagate da uno stato: basta ricordare il 5 febbraio 2003, quando nel Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite Colin Powell dichiarò che Saddam Hussein sarebbe in possesso di armi di distruzione di massa. Quella fu, come sappiamo, una notizia falsa. Ma, appunto, non una fake news, in quanto dichiarata da uno stato e non da un soggetto privato. Le notizie false “governative” hanno lo scopo di delegittimare l’avversario politico per legittimare un’azione politica. La tipica fake news non ha queste caratteristiche.

Inoltre bisogna distinguere le fake news dalla satira: troppo spesso incappiamo nell’errore di prendere sul serio notizie pubblicate in un sito di satira, colpa anche della professionalità con la quale vengono gestiti. Una di queste notizie riguardava la campagna elettorale nelle ultime elezioni negli Stati Uniti: una dichiarazione di Papa Francesco, che sosterrebbe il neo eletto presidente americano Donald Trump, è diventata assurdamente virale. Si trattava di satira, naturalmente. Difficile, invece, è la distinzione tra fake news e diffamazioni. Non ogni fake news contiene una diffamazione e non ogni diffamazione ha lo scopo di polarizzare oppure creare consensi. Se poi una diffamazione riguarda, come spesso accade nel bel mezzo di una campagna elettorale, un personaggio politico, ecco che possiamo considerarle anche una fake news. Ad esempio: la notizia secondo la quale la sorella dell’ex presidente della Camera Laura Boldrini gestirebbe un centinaio di cooperative che si occupano dell’immigrazione, è allo stesso tempo una diffamazione e una fake news.

Le camere dell’eco

Come funziona il fenomeno delle fake news? La risposta a questa domanda può darcela Ermes Maiolica, un propagatore di fake news, forse uno dei maggiori esponenti della mal-informazione. In un’intervista per La Repubblica che risale ad aprile del 2017, Maiolica afferma: “Tutti noi abbiamo dei pregiudizi cognitivi che ci inducono a cadere nelle bufale, sui social viviamo in una bolla, una camera dell’eco che ci porta a considerare alcune cose vere a priori”. Andiamo, in ordine, a vedere quali sono questi vizi cognitivi: quello più noto prende il nome di pregiudizio di conferma, in inglese confirmation bias. In psicologia indica un fenomeno cognitivo per il quale le persone tendono a muoversi entro un ambito delimitato dalle loro convinzioni acquisite. È un processo mentale che consiste nel ricercare, selezionare e interpretare informazioni in modo da porre maggiore attenzione, e quindi attribuire maggiore credibilità a quelle che confermano le proprie convinzioni o ipotesi, e viceversa, ignorare o sminuire informazioni che le contraddicono. Il fenomeno è più marcato nel contesto di argomenti che suscitano forti emozioni o che vanno a toccare credenze profondamente radicate. Un esempio: chi è convinto che tutti gli immigrati sono criminali, apprende tutte le notizie che riguardano reati commessi da un immigrato come conferma della sua tesi. Se allo stesso tempo, invece, dovesse apprendere una notizia che non conferma la sua tesi, come ad esempio il fatto che statisticamente in Germania la criminalità oramai da anni è in netto calo nonostante l’immigrazione, reagirà ignorandola.

Un altro pregiudizio si chiama “selective exposure”: purtroppo, la maggior parte di noi si informa solo ed esclusivamente attraverso ai media che combaciano con la nostra linea politica. In altre parole: se sono di Destra difficilmente andrò a leggere la Süddeutsche Zeitung oppure in Italia La Repubblica. Leggerei piuttosto un quotidiano oppure un sito con una chiave di lettura – appunto – di Destra. Questo fenomeno viene rafforzato da un altro pregiudizio cognitivo, che gli psicologi definiscono “selective retention”. Vale a dire: se apprendo un’informazione la ricordo molto più facilmente se va a confermare le mie idee. Le notizie che potrebbero confutare le mie tesi le dimentico più facilmente.

Mark Zuckerberg, parlando del successo di facebook, qualche tempo fa dichiarò: “Io vendo le attenzioni della gente sfruttando le loro debolezze”. Cosa vuole dire? Che i pregiudizi cognitivi, che altro non sono che delle debolezze gnoseologiche, fan sì che il nostro atteggiamento quando andiamo in cerca di notizie sulla rete diventa prevedibile. La prevedibilità permette ai motori di ricerca di lavorare con degli algoritmi che ci fanno leggere solo quello che è in sintonia con le nostre opinioni. Dunque, sostanzialmente, leggiamo sempre quello che gli algoritmi credono possa piacerci. La formazione di cosiddette “camere dell’eco” oppure “bolle di filtraggio” ne è un’immediata conseguenza. È ovvio, dunque, che le fake news trovano nella rete un terreno fertile per diffondersi a macchia d’olio, in quanto vanno ad alimentare le opinioni preconfezionate dei lettori che credono di informarsi liberamente ma in realtà si trovano in una piccola camera nella quale sentono ripetersi ciò che vogliono sentire. Insomma, a forza di leggere che tutti gli immigrati commettono reati, alla fine, ci crediamo.

Come riconoscere le fake news?

Vi sono molti modi per riconoscere una fake news. La cosa più importante da fare è la verifica della fonte da cui proviene la notizia (sito web, il modulo dei contatti, le info, il modulo «about us»). Spesso le fake news vengono diffuse da siti tutt’altro che seri e professionali. In questo contesto è consigliabile controllare l’url del sito da cui proviene la notizia: a volte basta uno spazio o un carattere diverso per trovarsi su un sito di fake (a. es. Correre.it / Corriere.it oppure il sito termina con .com.co piuttosto che con .com). Fondamentale è sempre la ricerca delle immagini: si tratta di foto originali oppure sono state riprese dal web, magari da un articolo non più attuale? Non di rado, inoltre, le fake news vengono presentate con titoli fuorvianti, in quanto formulati appositamente per ottenere più click. Conviene sempre non soffermarsi alla lettura del titolo, ma leggerne il contenuto. Un altro indizio che può essere utile riguarda l’autore dell’articolo: è identificabile, credibile, reale?

Chi pubblica una notizia senza firmarla può avere soltanto un motivo: quello di non dover rispondere alla verifica dei “fatti” citati. Importante è anche l’analisi della data alla quale risale la notizia: a volte vengono riproposte vecchie notizie come se fossero d’attualità, estrapolandole dal contesto storico e, dunque, manipolandole. Inoltre, le notizie false sono spesso povere di dettagli, richiamano spesso ad uno scandalo e non contengono riferimenti a ricerche di istituti autorevoli. Infine, le notizie false rimangono spesso „isolate“: non vengono condivise dalle testate giornalistiche autorevoli.

Cambiare il metodo di analisi delle notizie

Il fenomeno delle fake news mette a dura prova anche i giornalisti che devono selezionare le informazioni e decidere in poco tempo se pubblicare una notizia o meno. Non esiste, ovviamente, un metodo oggettivo che possa garantire a chi fa questo lavoro di individuare sempre le notizie false. Ma esiste, tuttavia, una via, un metodo, che potrebbe risultare – a lunga scadenza – un buon antidoto contro le armi di distrazione di massa: è il metodo della falsificazione che ci insegnava qualche anno fa il filosofo austriaco Karl R. Popper nel suo saggio “La logica della scienza”. Secondo Popper, per non cadere nel tranello del metodo induttivo, bisogna partire dal presupposto che una teoria è plausibile solo se può essere confutata con gli esperimenti. Una teoria che non ammette una confutazione, non può definirsi teoria (ma piuttosto ideologia) e, dunque, non ha nulla di vero da affermare. Riportando questo metodo al lavoro di analisi di una notizia, possiamo dunque asserire che una notizia è vera solo se non sussistono elementi che possano confutarne la veridicità.

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