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Editoriale

“Concedi a noi di crescere nella conoscenza del mistero di Cristo e di testimoniarlo con la nostra vita”. Sono queste le parole con cui la Chiesa si è rivolta al Signore nella prima domenica di Quaresima. E sembra essere questo lo scopo di quel periodo di quaranta giorni inaugurato il Mercoledì delle Ceneri e che ci porterà alla celebrazione della grande festa di Pasqua.

Sono certo che durante i sermoni dei nostri missionari abbiate sentito più volte parole come: digiuno, preghiera, penitenza, privazione, cuore contrito e umiliato, elemosina; parole che sono entrate a giusta ragione nel linguaggio liturgico e tradizionale di questo periodo.

Il tempo di Quaresima è chiamato tempo di grazia, il cammino di un nuovo esodo attraverso il deserto quaresimale. Dio, con le nostre volontarie privazioni, ci insegna a condividere i nostri beni con i bisognosi, imitando così la sua generosità.

Ma questa Quaresima l’abbiamo vissuta con quel fatto sconcertante che, a mio avviso, non possiamo dimenticare. Mi riferisco all’ennesimo naufragio di immigrati avvenuto sulle coste di Cutro, in Calabria. Immagini strazianti quelle viste in tv: uomini, donne e bambini di cui non conosceremo mai i nomi, ma che si aggiungono alla lista dei tanti morti nel Mediterraneo diventato un vero e proprio cimitero.

La strage di Cutro riapre in Italia sia a livello politico che sociale, dibattiti e discussioni che abbiamo ascoltato tantissime volte: le ostilità di una parte della nostra popolazione verso gli immigrati, la presenza di stranieri nel nostro Paese, le leggi sull’immigrazione, le tensioni in Europa su chi e come debba accogliere quei tanti immigrati che affrontano quel viaggio improvvisato della fortuna mosso dalla disperazione per poter approdare sulle nostre coste italiane con la speranza nel cuore di vivere un futuro migliore.

Tutto ciò disegna un panorama sociale che non può lasciare indifferente nessun cristiano e, di conseguenza, nessuna persona di buona volontà.

Varrebbe la pena chiedersi: cosa succede nella nostra società? Cosa succede nella nostra Chiesa e a noi stessi? Perché abbiamo tanta paura di qualcuno che è diverso, che non ha lo stesso colore della nostra pelle; che parla una lingua diversa, ha usi, modi e abitudini diverse; non condivide la nostra religione o la nostra cultura; viene da paesi lontani che non conosciamo ed è diverso nella sua forma di organizzazione sociale e familiare? Questi immigrati li sentiamo così differenti da noi?

Mi piacerebbe ricordare, a tal proposito, un frammento del famoso sermone del domenicano Fra Antonio de Montesinos rivolto agli spagnoli che, nell’isola di Hispaniola (oggi Repubblica Domenicana), maltrattarono e sottomisero in schiavitù gli indios nativi del paese: “Dimmi, con quale diritto e con quale giustizia tieni questi indiani in una servitù così crudele e orribile? Non sono questi uomini? Non hanno delle anime razionali? Non sei obbligato ad amarli come te stesso? Non lo capisci questo? Come puoi restare addormentato in un sonno così profondo?”

La persona immigrata, e ancor più quella considerata “clandestino” dalle autorità governative, è per il cristiano il fratello povero e indifeso, davanti al quale dobbiamo chiedere al Signore che ci conceda di aver misericordia con gesti e parole concrete, offrendo la nostra disponibilità soprattutto verso chi si sente abbandonato e sfruttato.

“La solidarietà è assunzione di responsabilità nei confronti di chi è in difficoltà. Per il cristiano il migrante non è semplicemente un individuo da rispettare secondo le norme fissate dalla legge, ma una persona la cui presenza lo interpella e le cui necessità diventano un impegno per la sua responsabilità. «Che ne hai fatto di tuo fratello?» (cfr. Gen. 4, 9). La risposta non va data entro i limiti imposti dalla legge, ma nello stile della solidarietà.

«Ero forestiero e mi avete ospitato» (Mt. 25, 35). È compito della Chiesa non solo riproporre ininterrottamente questo insegnamento di fede del Signore, ma anche indicarne l’appropriata applicazione alle diverse situazioni che il variare dei tempi continua a suscitare. Oggi il migrante irregolare ci si presenta come quel «forestiero» nel quale Gesù chiede di essere riconosciuto. Accoglierlo ed essere solidali con lui è dovere di ospitalità e fedeltà alla propria identità di cristiani. (Giovanni Paolo II, Messaggio per la Giornata Mondiale dell’Emigrazione 1995)”.

Cari lettori, ci stiamo preparando a poter celebrare degnamente la festa della Pasqua che è per noi cristiani la festa più importante della nostra fede. La Pasqua è la festa dell’universalità, dell’apertura, del trionfo dell’umanità, della gioia condivisa senza confini né barriere. Il trionfo di Cristo sul peccato, sul dolore e sulla morte è una buona notizia per tutti gli uomini e le donne del mondo e in ogni momento della storia. Saremo capaci di viverla e condividerla con un cuore allargato, inserendo in questo cuore senza esitazione tutti i nostri fratelli e sorelle venuti da lontano con il desiderio di condividere la vita con noi? Saremo capaci di vincere la tentazione di rifugiarci nelle nostre sicurezze per aprirci a una prospettiva universale?

Sarà Pasqua se la vivremo davvero come un tempo di grazia e di salvezza, ma ancor di più sarà Pasqua solo se i doni del Signore Risorto saremo capaci di condividerli con i nostri fratelli immigrati. E allora solo così potremo gustare quella gioia nel sapere che anche noi siamo risorti ad una vita nuova, fatta di fraternità, solidarietà e amore.

Buona Pasqua a tutti!

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