La migrazione dal continente nero segnerà il destino politico e sociale dell’Europa

Anche quest’anno l’estate è stata caratterizzata, complice il bel tempo, da un aumento degli arrivi di migranti sulle coste italiane. Due le novità da segnalare. La prima riguarda le nuove regole di condotta imposte alle numerose organizzazioni non governative (ONG), molte delle quali straniere, impegnate nelle operazioni di salvataggio. Queste regole si sono rese necessarie dopo i sospetti di accordi tra scafisti e ONG, tanto che il governo italiano ha perfino minacciato di negare alle loro navi l’accesso ai porti del nostro paese. La seconda novità, ben più importante, è quella rappresentata dall’accordo tra alcuni stati europei (Francia, Germania, Italia e Spagna) e alcuni stati africani (in primis Libia, Niger, Mali e Ciad) raggiunto, con il benestare dell’UE, il 28 agosto scorso a Parigi.

L’accordo prevede di rinforzare la cooperazione con i paesi da cui partono i flussi migratori allo scopo di contrastarne le cause principali, prevenire le partenze e migliorare la capacità di rimpatrio dei migranti clandestini. L’obiettivo è quello di trasformare la gestione dell’emergenza in una gestione stabile e coordinata dell’immigrazione. In altre parole l’Europa intende governare i flussi migratori e vuole farlo molto prima che raggiungano la Libia. Vuole farlo coinvolgendo i governi dei paesi africani da cui si originano i flussi. Ci riuscirà? Tentiamo di dare una risposta prendendo le mosse da un altro vertice, il G20 tenutosi ad Amburgo nello scorso mese di luglio.

L’obiettivo principale dei vertici G20 è la crescita economica sostenibile. Un obiettivo arduo se si pensa che per crescita si intende quella globale. Anche quest’anno non sono mancate manifestazioni e proteste contro un vertice che da quando è stato creato, nel 1999, è diventato espressione da una parte di buone intenzioni e grandi aspettative, dall’altra di forti delusioni. Queste, a ben guardare, sono la conseguenza delle contraddizioni, di cui il G20 è portatore, intrinseche nel binomio crescita-capitalismo. I paesi membri rappresentano il 90% della ricchezza del mondo, l’80% del commercio mondiale e sono responsabili dell’84% delle emissioni totali di gas serra. L’Africa è la grande esclusa dalla festa (solo il Sudafrica ne è membro) ma, a guardar bene, è lei che paga il conto.

Attualmente in Africa 20 milioni di persone rischiano la vita a causa della carestia che ha colpito alcuni paesi dell’area subsahariana, in primis la Somalia, il Sud Sudan e la Nigeria nord-orientale. In vaste aree da tre anni non piove quasi più. Il risultato è che la gente è costretta ad abbandonare le proprie case e a sfollare in accampamenti di fortuna in cui le condizioni di vita sono estremamente precarie. Nella regione a nord e a ovest di Mogadiscio di questi accampamenti ne sono sorti a centinaia. A siccità e carestia si sono aggiunte epidemie come il colera e la malaria. Come se non bastasse in questa zona sono i terroristi islamisti di Al Shabaab a dettar legge. All’origine della carestia è il cambiamento climatico che nel continente nero è più devastante che altrove. Secondo le Nazioni Unite in Africa sta avendo luogo la peggiore crisi alimentare dal 1945. Questa riguarda una ventina di stati africani caratterizzati anche da instabilità politica. È da questi stati che iniziano i flussi migratori verso il mediterraneo.

La geografia non permette speculazioni. Per raggiungere l’Europa le rotte sono obbligate. Tutte comportano il superamento di due mari, uno di sabbia e l’altro d’acqua, entrambi pieni di insidie. Il deterrente rappresentato dall’alto numero di morti non ferma l’esercito dei disperati. Secondo l’IOM (International Organization for Migration) dal 1 gennaio al 12 luglio di quest’anno 86.121 persone sono arrivate in Italia attraverso le rotte del mediterraneo centrale. 2.206 non ce l’hanno fatta. Tra gli obiettivi del vertice di Parigi del 28 agosto c’è quello di ridurre drasticamente il numero di migranti economici che raggiungono l’Europa. Secondo stime difficili da verificare ad essi corrisponderebbe l’85% degli arrivi. Va detto tuttavia che la differenza tra aventi diritto o meno all’asilo, tra chi emigra perché perseguitato e chi lo fa per via della miseria, non è chiara e che le carestie non sono meno minacciose delle guerre. Secondo l’ONU in vaste aree del mondo siccità, carestie, guerre e conflitti regionali diventeranno endemici col risultato di alimentare indefinitamente i flussi di persone che abbandonano i luoghi d’origine. Un forte contributo a questa tendenza lo darà la crescita demografica mondiale. In Africa sarà più alta degli altri continenti.

Oggi nel continente africano vivono 1 miliardo e 200 milioni di persone. Nel 2100 saranno 4 miliardi e 400 milioni (fonte ONU). Su scala planetaria l’83% dell’aumento demografico avrà luogo in Africa. Nella sola Nigeria la popolazione a fine secolo sarà di circa 800 milioni, di 150 milioni superiore all’intera popolazione europea. Queste proiezioni si basano su valutazioni che i demografi ritengono ragionevoli, in qualche caso persino troppo prudenti, e che partono dalla considerazione che attualmente in Africa l’età media della popolazione è inferiore ai venti anni. In molti paesi africani ogni donna mette al mondo 5 o 6 figli e senza una severa politica di controllo demografico l’esplosione sarà inevitabile.

Al vertice di Parigi del 28 agosto si è anche parlato di costi ed è stata considerata la possibilità di mettere in piedi una strategia simile a quella attuata con la Turchia, ovvero destinare ingenti fondi per la gestione in loco del problema. Ciò significa almeno 6 miliardi di euro da assegnare ai paesi africani più interessati. Al G20 di Amburgo Angela Merkel aveva riaffermato le responsabilità dei paesi membri verso l’Africa e l’impegno di “aiutarli a casa loro”. Giustissimo, ma perché (a parte aiuti umanitari risibili) non è stato fatto finora? La risposta è semplice. Non è stato fatto perché farlo, veramente e bene, sarebbe stato estremamente difficile e costoso. Altro che 6 miliardi. Aiutarli a casa loro significa mettere mano ad alcune delle grandi questioni che attanagliano il pianeta e rispetto alle quali la politica dei paesi più sviluppati è (consapevolmente e colpevolmente) responsabile: cambiamento climatico, sfruttamento delle risorse e delle materie prime, sostegno a governi corrotti, vendita di armi. Eccetera, eccetera. Tutte questioni rese ancor più gravi dallo sviluppo demografico e che si intrecciano, alimentandole, con le migrazioni. A fronte dell’entità di tali questioni gli accordi dell’ultimo vertice di Parigi appaiono inadeguati qualitativamente e insufficienti quantitativamente.

Che ci piaccia o no, la pressione migratoria tra Africa ed Europa aumenterà ancora. Le discussioni e i battibecchi della politica continueranno, tra una tragedia e l’altra, tra un attentato terroristico e l’altro, tra un’elezione e l’altra, tra un vertice internazionale e l’altro. Che a noi cittadini della vecchia e ricca Europa piaccia o no, l’Africa è lì, nera, giovane, povera, enorme e vicina, ed è il nostro futuro. Se non ce ne occupiamo subito e seriamente, sarà lei ad occuparsi di noi.

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