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Astensionismo pilotato e disinformazione: quando la politica smette di servire la democrazia e comincia a tradirla

In vista del referendum dell’8 e 9 giugno 2025, la battaglia politica si sta giocando ben oltre i contenuti del voto. A preoccupare non è solo il crescente disinteresse dei cittadini, ma l’atteggiamento di alcuni rappresentanti istituzionali che sembrano confondere la strategia con la manipolazione, l’informazione con la pressione, la democrazia con il tornaconto di parte.

La domanda sorge spontanea: è reato invitare all’astensione? No, non lo è. La legge è chiara: l’articolo 48 della Costituzione parla di dovere civico, non di obbligo. E il meccanismo del quorum nei referendum prevede esplicitamente che l’astensione sia una delle opzioni previste. Ma non basta che una condotta sia legale per essere anche legittima, opportuna o, soprattutto, rispettosa dei principi democratici.

Quando un rappresentante del governo — di qualunque parte politica — invita i cittadini a non partecipare, magari per evitare il raggiungimento del quorum, sta compiendo un gesto politicamente miope e istituzionalmente scorretto. Non è un reato, ma è un errore grave. Non è illecito, ma è un impoverimento del dibattito democratico. È come se si chiedesse agli elettori di autoescludersi da un momento di sovranità popolare. Una distorsione profonda della funzione pubblica.

Ma se la destra non brilla per trasparenza invitando apertamente a disertare il voto (senza nemmeno il coraggio di dichiararne le ragioni politiche), la sinistra, in alcuni casi, si è resa protagonista di un comportamento altrettanto discutibile ma opposto: quello della disinformazione a fin di militanza.

L’episodio riportato dal sito ItaloBlogger sull’incontro pubblico di Winterthur, in Svizzera, è emblematico. Secondo quanto scritto da ItaloBlogger, la Presidente del PD Svizzera avrebbe dichiarato che “votare significa lasciare inalterata l’iscrizione AIRE nel casellario consolare di riferimento per continuare a ottenere tutti i benefici dei servizi erogati dalle strutture consolari”. Una frase che, se confermata nei termini riportati, risulta tanto inesatta dal punto di vista normativo quanto fuorviante da quello informativo.

La legge n. 470 del 1988 è chiarissima: l’iscrizione all’AIRE si basa su tre criteri — residenza all’estero, cittadinanza italiana, e assenza di rimpatrio definitivo. Il comportamento elettorale non ha alcuna incidenza su questi requisiti. Chi non vota, per qualunque motivo, non perde alcun diritto. Non viene cancellato dal registro. Non perde l’accesso ai servizi consolari.

Sostenere il contrario, anche per stimolare la partecipazione, è una forma di pressione indebita, che può alimentare timori, confusione e sfiducia. Non è solo un errore tecnico, ma una caduta di responsabilità politica.

Ma non si tratta solo di una querelle tra schieramenti. Il vero problema è culturale, e trasversale: una parte della politica italiana, dentro e fuori i confini nazionali, non riesce più a distinguere tra promozione della partecipazione e manipolazione dell’elettorato.

Da una parte si disincentiva il voto per motivi tattici. Dall’altra si ricorre a messaggi fuorvianti per portare le persone alle urne. Due facce della stessa medaglia, quella della strumentalizzazione della democrazia.

È evidente che la partecipazione elettorale, specie da parte degli italiani all’estero, non può basarsi su inganni o intimidazioni, ma su informazione corretta e consapevolezza dei propri diritti. Il voto è un diritto, mai un ricatto. È uno strumento di libertà, non un mezzo di controllo.

Che lo ricordino anche coloro che oggi siedono ai vertici di partito o rappresentano istituzioni all’estero: la dignità della politica si misura anche — e soprattutto — nei momenti in cui si ha il potere di condizionare gli altri, ma si sceglie di rispettarne la libertà.

Perché la democrazia non si difende con le furbizie né con i trucchi comunicativi. Si difende con la verità, la trasparenza e il coraggio di trattare gli elettori da cittadini, non da pedine.

Un appello finale

Carissimi italiani all’estero, il voto non è solo un atto simbolico: è una delle poche leve reali di partecipazione democratica. È il ponte che ci lega ancora al destino politico, sociale e culturale del nostro Paese. È lo strumento con cui possiamo far sentire la nostra voce anche da lontano, contribuendo alle scelte collettive con la stessa dignità di chi vive entro i confini nazionali.

Sminuirlo, scoraggiarlo o manipolarlo è una ferita alla democrazia. Difenderlo è un dovere civile e morale. E ogni cittadino dovrebbe poterlo esercitare con libertà, verità e rispetto.