Cartina Stati membri della Nato. Foto ©CdI

La guerra che cambierà profondamente gli equilibri geopolitici globali, sorti dopo la caduta dell’Unione Sovietica

Ormai non si parla che di armi. Armi pesanti, missili, carri armati, droni, jet da combattimento. La loro fornitura all’Ucraina è diventata il tema principale nelle cancellerie e nei parlamenti dell’occidente. Emblematiche le parole del Ministro degli esteri ucraino Dmytro Kuleba che il 7 aprile a Bruxelles in visita alla Nato ha affermato che la sua agenda era basata su tre punti: “armi, armi, armi”. Alle reiterate richieste di forniture militari è stata soprattutto l’America a rispondere con solerzia e generosità.

Il 25 aprile a Kiev è apparso il Segretario alla difesa Lloyd Austin, capo del Pentagono, la macchina che impiega l’esercito più potente del mondo. Insieme a lui c’era il Segretario di Stato Antony Blinken. Il giorno dopo a Ramstein, base americana in Germania, Austin ha presieduto una riunione con ministri della difesa occidentali e con i vertici della Nato. Hanno partecipato circa 40 nazioni e l’incontro ha avuto lo scopo di coordinare e finalizzare gli aiuti militari all’Ucraina. Al sostegno militare quasi unanime dell’Unione Europea e degli Stati Uniti alla resistenza ucraina, il Ministro degli esteri russo Lavrov ha risposto affermando che la consegna di armi da parte della Nato all’Ucraina significa in sostanza che “la Nato è in guerra con la Russia” uno scenario che rende “considerevole” il rischio di una terza guerra mondiale. A ciò si aggiungono, da parte russa, le minacce verbali e le dimostrazioni muscolari di impiego di armamenti di nuova generazione. Dopo il successo del lancio di prova del missile balistico intercontinentale Sarmat, il capo dell’agenzia spaziale russa Dmitry Rogozin ha annunciato che i nuovi missili saranno dispiegati in Siberia in autunno precisando che hanno una gittata di 18 mila chilometri e che possono essere armati con testate nucleari multiple. Intanto la Russia ha chiarito che i suoi obiettivi sono quelli di annettere oltre ai territori del Donbas l’intera regione costiera meridionale fino alla Moldavia privando in tal modo l’Ucraina dell’accesso al mare. La presenza lungo il confine tra Ucraina e Moldavia della Transnistria, territorio separatista filorusso non riconosciuto dall’Onu, potrebbe rientrare negli appetiti del Cremlino in una strategia, ormai palese, di progressiva riappropriazione di territori ex Unione Sovietica. E il fatto che nelle ultime ore alcune esplosioni si siano udite nella capitale Tiraspol rendono il rischio di un allargamento del conflitto quanto mai concreto.

Di negoziati non parla più nessuno. L’unica eccezione è la voce di Papa Francesco, ma il suo monito rimane inascoltato. E lascia sgomenti il fatto che il patriarca Kirill, capo della chiesa ortodossa russa, abbia manifestato apertamente il suo sostegno a Putin. Quanto all’ONU il fatto che il Consiglio di Sicurezza abbia come membro permanente la Russia con potere di veto rispetto a qualsiasi risoluzione, rende praticamente impotente il massimo organismo internazionale del pianeta. Un paio di settimane fa Zelensky parlando in collegamento remoto all’Assemblea generale ha sostenuto l’urgenza di una riforma dell’ONU. Non possiamo non dargli ragione. Dopo la fine della guerra fredda le Nazioni Unite non sono state in grado di fornire risposte adeguate alle molteplici crisi sorte in altrettante regioni del mondo. Nelle ultime settimane alcune di tali crisi si sono risvegliate – Palestina-Israele, Turchia-Kurdistan, Nord Corea, Cina-Taiwan – tanto per menzionarne alcune, chiaro segno di contagio che l’attuale crisi ucraina sta producendo su altre aree del pianeta e sulle velleità dei protagonisti. Sono circa 60 le aree di crisi intorno alle quale l’ONU deve barcamenarsi. Quanto all’Ucraina, nel tentativo di riportare Wladimir Putin a più miti consigli il viaggio a Mosca del Segretario generale António Guterres è stato l’ennesimo fiasco.

A più di due mesi dall’inizio dell’invasione il quadro della situazione lascia poco spazio alla speranza di giungere in tempi brevi ad un accordo di pace. Che la guerra durerà a lungo lo si capisce dalle parole che Austin ha pronunciato a Ramstein dichiarando esplicitamente la volontà di Washington di vedere Mosca indebolita dal conflitto in Ucraina al punto di non poter più avviare operazioni simili. Gli obiettivi strategici di Washington sono dunque quelli di armare l’Ucraina non solo per fermare l’avanzata russa sul campo, ma per ridimensionare la macchina da guerra del Cremlino anche negli anni a venire. Ma il vero obiettivo di Washington è quello dichiarato (ma poi subito smentito) da Biden il 26 marzo a Varsavia: la rimozione di Putin. In virtù del patto atlantico gli americani stanno tirando la giacchetta a partner europei e la Nato, che soltanto pochi anni fa era considerata un malato terminale (parole di Macron artefice di un progetto di difesa europea), ha di fatto ritrovato grande vitalità proprio grazie all’invasione dell’Ucraina.

Stiamo giocando col fuoco. Anche se non lo è in termini di scontro armato, la guerra in corso è già una guerra mondiale. Lo è in termini ideologici, politici, economici. A combatterla c’è da una parte il mondo occidentale basato sulle democrazie liberali di tipo capitalistico e dall’altra le autarchie che negano le libertà individuali e attuano modelli di sviluppo economico fortemente centralizzati.

Nonostante la Russia abbia un Pil pari a quello della Spagna, la sua estensione territoriale, le sue risorse naturali, petrolio e gas in primis (ma anche grano), la disponibilità del più grande arsenale nucleare mondiale e, non da ultimo, lo stretto rapporto di amicizia con la Cina e l’India rendono una guerra Stati Uniti – Russia particolarmente rischiosa e, ove fosse combattuta militarmente, dalle conseguenze incalcolabili per il mondo intero. Stiamo giocando col fuoco e l’Europa in questo gioco al riarmo è la parte del mondo che ha più da perdere. Perché rimarrebbe schiacciata tra le grandi potenze. Ma non solo per questo: la stessa sopravvivenza dell’Ue corre seri rischi. Quando la guerra sarà finita bisognerà metter mano al progetto degli Stati Uniti d’Europa nella prospettiva di avere una voce unica in merito alle grandi questioni che attanagliano il mondo. Vere guerre da combattere e vincere, in primis quella del cambiamento climatico.

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