Un po’ di storia. Continuano i racconti del professor Lorenzo Morao

Di Generali, nel corso della Grande Guerra, se ne avvicendarono oltre mille, Generali di Raggruppamenti di Artiglieria, di Brigata, di Divisione, di Corpo d’Armata, di Armata, sottoposti ad una selezione che nell’esercito italiano fu più spietata che in altri eserciti. Furono quasi 300 i provvedimenti di esonero, la gran parte firmati da Cadorna. Dei Comandanti d’Armata che avevano iniziato la guerra, solo il Duca d’Aosta era rimasto al suo posto, al comando della III Armata, alla vigilia di Caporetto.

In più di qualche caso era bastato un minimo accenno di sfiducia per decidere la sostituzione. Nell’esercito era esclusa ogni dialettica interna ed ogni iniziativa personale. Ai vari Comandi spettava solo la traduzione in atto dei piani concepiti in alto e l’applicazione fedele delle Circolari. Il soldato, poi, era un vero e proprio suddito, tenuto solo ad un’obbedienza pronta ed assoluta.

La rapida carriera di Giuseppe Pennella

Una certa preferenza Cadorna la concedeva a quanti provenivano dalla Segreteria Generale, costituita da un gruppo di giovani e brillanti ufficiali di Stato Maggiore, come appunto l’allora Colonnello Giuseppe Pennella, divenuto nel luglio del ’15 capo-ufficio della Segreteria.

Ben presto, dopo qualche mese (novembre del ‘15), dovette sottoporsi alla “prova del fuoco”, al comando della brigata “Granatieri di Sardegna”. Cadorna esprimeva il suo rammarico per la perdita di “un valentissimo ufficiale e di uno dei più geniali e devoti collaboratori” ed insieme la certezza che “i Granatieri di Sardegna avrebbero acquistato in lui un ottimo Comandante”. E tale si sarebbe dimostrato nelle battaglie di Oslavia, del Monte Cengio e sul calvario del Carso, meritandosi tre Medaglie d’Argento ed il grado di Maggior Generale.

Pennella avrebbe ricordato anche dopo alcuni anni quei momenti in cui aveva deciso di “combattere come gregario, col moschetto in pugno, come da Generale aveva fatto più volte, al Cengio e durante il ripiegamento sul Piave, dopo Caporetto”. Perché era convinto che, nonostante il crescente impatto della tecnologia bellica, l’elemento determinante di ogni vittoria era sempre il soldato sorretto da forti motivazioni e da una fiducia totale nel suo Comandante. Spettava al Comandante sapersi meritare quella fiducia, come cercava di fare lui, proponendosi di andare “per alcune ore tutti i giorni a vivere con i suoi soldati la loro vita di trincea per sentire le ansie, i palpiti, i sacrifici, per animarli ed incitarli con la parola e con l’esempio”.

Ormai, nella primavera del ’18, era nell’aria una sua nomina a capo di un’Armata. Ed il 26 febbraio fu convocato dal Comando Supremo, che gli affidò il Comando non facile della II Armata (poi divenuta VIII Armata), ritenuta la maggior responsabile di Caporetto. Dopo aver ottenuto ampie rassicurazioni da Diaz sulla ricostituzione dell’Armata, in termini di artiglierie, riserve e servizi, il nuovo Comandante si accinse all’opera di recupero prima di tutto morale di quei soldati. “Mettermi in pugno l’anima di questa II Armata”, questo era il suo assillo e lo comunicava spesso nelle lettere alla moglie Elisa ed alle due figlie, Maria ed Antonietta.

Il bisogno di tenere vivi e costanti i rapporti con la famiglia, scambiandosi corrispondenza quasi ogni giorno, era un tratto caratteristico di Pennella. Ed alle sue donne confidava da Villa Frova (ora Villa Corner) di Cavasagra (Treviso), sede del Comando avanzato della sua Armata, i suoi sentimenti più profondi: “Mentre scrivo, vedo attraverso le ampie vetrate di villa Frova scendere minuta ed insistente la pioggia… ed una nostalgia accorata mi prende, mentre dai bordi dei loro nidi pigolano di tratto in tratto i passeri solitari. E penso a voi!”. Ma ci teneva anche a metterle a parte delle emozioni provate a contatto con i suoi soldati: “Non puoi immaginare quanto i miei soldati mi vogliono bene. Mi conoscono quasi tutti e quando passo con l’auto corrono sulle strade per salutarmi ed io ne rimango commosso. Voglio loro bene come un padre ai figlioli”.

Il vincitore della battaglia del Montello

Ormai l’attacco austriaco si sentiva imminente. Ma dove avrebbero attaccato? Qui cominciano gli errori del Comando Supremo, che, sentite le voci provenienti da prigionieri e disertori e dai Servizi Informazione di ciascuna Armata (per la verità poco efficienti), si convinse che le zone dell’attacco sarebbero state quelle “degli Altipiani tra il Brenta ed il Piave” e del Basso Piave. Con la conseguenza, per l’VIII Armata che non avrebbe dovuto essere subito esposta all’attacco, della riduzione del “coefficiente delle artiglierie” e della rinuncia al suo Corpo d’Armata di riserva spostato sul fronte degli Altipiani, nonostante le vivaci proteste di Pennella, molto preoccupato per la tenuta del fronte a lui affidato. Un’ulteriore conseguenza era stata l’autorizzazione a sostituire un Reggimento di prima linea, su richiesta del generale Gandolfo, comandante di quel Corpo d’Armata. Così che quella notte del 15 giugno, quando alle tre del mattino le artiglierie nemiche cominciarono a scatenare l’inferno, l’operazione non era ancora compiuta e creava confusione e disorientamento. Il resto lo fecero i lacrimogeni, i fumogeni, la straordinaria potenza di fuoco dei medi e dei grossi calibri austriaci e la capacità di infiltrazione di piccoli nuclei nemici lungo le strade marginali che solcavano da nord a sud il Montello.

A causa della difficili comunicazioni Pennella riuscì a rendersi conto della situazione solo a mattino inoltrato ed a mettere in campo una piccola riserva di Armata, che aveva raccolto in fretta e furia, attingendo ad alcuni dei suoi battaglioni di sicuro affidamento, di Arditi, di Bersaglieri, di Cavalleggeri, di Fanti, posti al comando del fedele colonnello Giacchi. E fu quella riserva che riuscì nel primo pomeriggio a tamponare l’avanzata austriaca, ormai giunta alla terza linea di difesa italiana e prossima a dilagare in pianura. Ci riuscì, compiendo atti di eroismo e lasciando sul campo quasi metà dei suoi effettivi.

Nei giorni successivi fu un susseguirsi di furibonde lotte intorno ai villaggi ed ai casolari del Montello, invaso quasi per la metà dalle truppe austriache. Il generale Pennella dovette farvi fronte con le proprie forze, perché i rinforzi tanto richiesti giunsero solo il 19 giugno, quando già la nostra aeronautica ed il Piave ingrossato riuscivano ad impedire nuove passerelle sul Piave. Si può ben capire come il Comandante dell’VIII Armata, dopo tre giorni e tre notti di ansie e trepidazioni, sbottasse esasperato contro Diaz, che gli era andato a far visita a villa Frova. E proprio questo sfogo prolungato, alla presenza del generale Cicconetti e del Cappellano Militare Don Minozzi (che lo riportò nelle sue memorie), gli costò la sostituzione alla fine della vittoriosa battaglia.

Per lui fu una cocente umiliazione, che doveva segnarlo per la vita, ma che non gli impedì di essere assegnato, quindici giorni dopo, al comando del XII Corpo della VI Armata, alla testa del quale, nel corso della battaglia finale di Vittorio Veneto, entrò in Valsugana e liberò alcuni paesi come Levico e Pergine, che ricordarono poi con una stele quella sua impresa.

Ma non riuscì mai a liberarsi di quella umiliazione: “È troppo atroce, ingiusto e vigliacco quello che è stato fatto… Trovo che dappertutto è bugia, artificio, egoismo… Nel mio cuore qualcosa si è spezzato che non riesce a connettersi”, confiderà a più riprese a sua moglie ed alle figlie. Si riprometteva, passato un po’ di tempo, di parlare e di dire la verità vera, “se conserverò ancora un po’ della poesia della vita”.

Purtroppo non ci riuscì e se ne andò per sempre il 15 settembre 1925, a Firenze, a soli 61 anni, accompagnato dall’estremo omaggio di Autorità militari e civili e dalla popolazione di Firenze “accalcata dietro una fitta siepe di baionette e pezzi di artiglieria allineati sulle piazze”. Fu ricordato pochi mesi dopo dai suoi Granatieri di Sardegna, che gli dedicarono un busto marmoreo nel loro Museo storico di Roma, e dalla sua città natale, Rionero in Vulture, otto anni dopo, con un maestoso monumento bronzeo, opera dello scultore Mario Rutelli, del cui Comitato Promotore facevano parte Benito Mussolini, Armando Diaz e Luigi Cadorna, ed infine da Giavera del Montello, che, nel cinquantennale della battaglia del Montello, eresse una stele in pietra con il busto del Generale in bronzo e gli intitolò il piazzale del sacello dei Caduti nella Valle dei Morti.

Ma non bastarono questi ed altri riconoscimenti. Su Pennella pesarono i giudizi negativi di uno storico, Gianni Baj-Macario, allora ufficiale di Stato maggiore legato da devota ammirazione al generale Badoglio, che negli anni trenta scrisse un saggio in cui, a proposito della battaglia del Montello, attribuì ogni colpa e nessun merito al Comandante dell’VIII Armata, senza preoccuparsi di ricercare i documenti relativi.

Della scarsa obiettività di questo storico fa fede la condanna al confino subita per aver criticato senza misura l’Armata degli Altipiani, comandata dal generale Giardino, che reagì documenti alla mano contestando violentemente i giudizi di Baj-Macario. Proprio quello che Pennella non poté fare, causa la morte prematura. Purtroppo ancor oggi è più facile seguire quei giudizi negativi che verificarli.

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