La Costituzione tra storia e diritto: un’analisi delle sfide democratiche di ieri e di oggi
Ogni volta che ci mettiamo a guardare due splendidi quadri di Rembrandt – Le lezioni di anatomia del dottor Deijman e del dottor Tulp – dipinti dal maestro olandese a metà del ‘600 – ci pare di immaginare una scena analoga che vede sul tavolo operatorio la nostra bella Italia – oppure la grande Germania – ed i tanti chirurghi accorsi al suo capezzale. Nel primo caso penso ai nomi di grandi giuristi di fronte al povero ammalato nostro paese nel 1945 e mi sembra di ravvedere i volti di Costantino Mortati, Ferruccio Parri, Pietro Calamandrei, Meuccio Ruini, Aldo Moro, magari affiancati dai loro assistenti, Leopoldo Elia, Vezio Crisafulli e Temistocle Martinez. Alcuni guardano con indifferenza il medico che operava, altri sembrano suggerire, altri dissentono e forse propongono soluzioni estreme. E penso che all’epoca della Costituzione di Weimar nel 1919, i giuristi di lingua tedesca non fossero meno preoccupati di quelli italiani del secondo dopoguerra.
All’epoca del progetto costituzionale di Weimar – si badi che fu scelta una città lontana dalla capitale Berlino e dalla popolare Monaco, perché ambedue quelle metropoli erano scosse da venti di guerra civile, fra comunisti e nazionalisti con centinaia di morti per le strade – la commissione medica chiamata a sanare il malato tedesco era profondamente divisa.
La scuola classica positivista, cristiana e socialista, ma anche quella liberale – diretta rispettivamente da Ottmar Bühler, Hugo Preuß, Walther Rathenau e Matthias Erzberger – non solo voleva introdurre la forma di Stato repubblicana, ma pretendeva la forma di governo parlamentare con esecutivo privo di poteri deliberativi, fermo restando la ferma volontà delle forze democratiche di tutelare la presenza di molti partiti politici e la difesa rafforzata di ogni diritto civile, primo, fra tutte le donne fino ad allora regine della casa, vacche da bordelli, operaie senza volto, oppure fenomeni da baraccone. Non pochi tra loro tramavano vendetta, spingevano a far sparare sulle folle infuocate da fame e stenti, sperando di ripetere con successo la rivoluzione proletaria che qualche mese prima era avvenuto a San Pietroburgo.
Invece i socialisti moderati ed i cattolici conservatori esigevano di passare ai fatti, prima che qualche bolscevico eliminasse i loro privilegi. Tuonava però qualche filosofo della politica che il diritto delle minoranze andava difeso e che occorreva limitare i poteri dittatoriali già attribuiti all’Imperatore dalla Costituzione federale di Francoforte del 1849. Difendeva la domanda di limitazione dei poteri governativi, un professore austriaco, Hans Kelsen, che fra breve elaborerà la c.d. Dottrina pura del diritto, intesa come norma oggettiva assoluta di kantiana memoria, fonte superiore del diritto costituzionale e regola aurea rigida, idonea a disciplinare la sovranità popolare che le destre invocano contemporaneamente. A tal proposito, emergeva dal fronte dei giuristi conservatori una scuola opposta, per niente asettica o pura, strettamente legata alla politica ed alla sociologia, figlia delle tensioni del momento, dove il diritto tornava ad essere soggettivo, dove lo Stato perdeva il carattere di soggetto neutrale assumendo la rappresentanza dal popolo, anzi della maggioranza di quel popolo, una comunità di eguali di stirpe e di lingua comune che alla guida di un capo assoluto, marciasse alla guida delle masse. La teoria Kelseniana veniva fortemente respinta perché non ci poteva essere Diritto senza Società.
Il Diritto quindi diveniva espressione della storia di un Popolo. Purtroppo la giustizia cessava così di non essere più neutrale, ma una funzione meramente politica, cioè un diritto della stirpe ed un diritto dell’economia. Le parole d’ordine di questo sistema erano dittatura della maggioranza, teologia politica, decisionismo, decretazione governativa d’urgenza, minoranze come nemici dell’ordine sociale, quasi una riedizione dello Stato assoluto dei bei tempi antichi di Federico di Prussia, dove il potere era frutto dell’accordo fra il Re ed i sudditi uniti per servire l’interesse nazionale, senza Parlamento, senza collegialità di governo, con un forte potere esecutivo, col Presidente della Repubblica novello Imperatore. E soprattutto con un partito nazionalista unico e solo.
Di più: la giustizia andava amministrata in nome del popolo, senza alcun limite al potere del Governo e con i giudici meri esecutori delle sue direttive. Fautori di questa concezione autoritaria, all’interno del nuovo regime repubblicano, era stato un altro professorino di primo pelo, Carl Schmitt, pronto ad aderire pochi anni dopo al partito Nazista. In verità le tesi di Schmitt venivano da lontano sull’onda della ricostruzione economica classica – Smith e Marshall, i santoni dell’economia liberista – dove giudici ed avvocati non creavano, ma ricostruivano il diritto caso per caso, quasi un terno a lotto. Anche se il principio di rappresentanza parlamentare consentisse di introdurre leggi speciali di volta in volta, si sosteneva che vi fosse un regolamento assoluto già presente nelle leggi del Libero Mercato. Ciò che i cittadini avrebbero di bisogno, il bene comune, altro non sarebbe che un interesse legato alla promozione e tutela del Capitale. Piuttosto, la vera Costituzione era quella dettata dalla scuola di pensiero liberista coeva di Vienna, proposta da von Mises, secondo cui il diritto altro non era che il regolamento del Libero Mercato, un diritto ondivago, che emergerebbe per ogni evenienza economica.
In altre parole, un concetto non nuovo nella cultura sociologica europea di primo ‘900, dove il giurista altro non era che un esecutore dei valori materiali del momento. Del pari il legislatore sarebbe un mero passacarte della volontà sovrana del popolo, una maggioranza di sangue e di carne identitaria che impone lo sterminio del nemico, cioè di chi non la pensa come loro. Una concezione medievale verrebbe da dire, analoga alla posizione della Chiesa Cattolica della Controriforma nella Spagna di Isabella e Ferdinando, che portò non a caso alla prima mattanza ebraica e poi alla disastrosa guerra dei 30 anni che ridusse allo stremo proprio quella Germania che tre secoli ritornò su tale ideologia. I costituzionalisti di Weimar avevano introdotto l’art. 48 di quella Costituzione – la sospensione governativa delle forme di governo liberale e la negazione indeterminata dei diritti civili – al fine di ristabilire l’ordine e la sicurezza pubblica, naturalmente una misura eccezionale. Accadde però che il voto popolare la confermasse mandando al Governo proprio il partito Nazista che l’aveva proposta, favorendo così la decadenza dell’intera Costituzione.
Fu il caso politico e sociale di quella repubblica, divenuta un’apocalisse dopo la crisi del ‘29 che bloccò gli aiuti americani e convinse il buon borghese tedesco ad aderire alle folli pretese del minuscolo partito nazionalsocialista ed alla sua classe dirigente, apparsa sulla scena proprio per rimettere in moto un meccanismo sociale apparentemente perdente, mentre la coesione fra le classi si era smembrata in modo irreversibile. Per tornare alla metafora del quadro di Rembrandt, il corpo era quasi morto e la via chirurgica appariva la più ardita e si sa che chi osa vince. Ma la cessione di potere alla massa consenziente fu un rimedio peggiore del male perché produsse la dittatura più dannosa della storia. E quando nel 1945, il giovane Costantino Mortati – divenuto un attento lettore di Carl Schmitt e di Hans Kelsen già allora in polemica – scriveva la notissima ricerca sul concetto di costituzione materiale poco sopra anticipata – comprese che le scelte di Hans erano utopiche e che quelle di Carl erano molto pericolose.
Occorreva una ricetta più ottimale, sia farmacologica, sia operativa, come fece quell’ignoto medico dell’equipe di studiosi che sta curando il malato del quadro. Una mediazione da ricostruire, non una presa di posizione astratta che avrebbe lasciato spazi rischiosi per la Democrazia. Non più norme astratte di apertura al momento, né quelle concrete riprese dalla logica di mercato. Non più un popolo sovrano che dominasse le minoranze, quanto e piuttosto forme politiche di mediazione e di coesione sociale in diversi istituti dello Stato. Mai più una decisionismo fragile perché autoritario; ma un contesto politico di più Organi che si bilanciassero fra loro, magari dal centro alla periferia, dal locale al nazionale e che impedissero la prevalenza di un Potere sull’altro. Il contrario significava l’anticamera della dittatura. Il collante di tali organi per Mortati era il Partito Politico, una specie di palestra dove convivessero in dialogo tutte le classi sociali, una specie cioè di Parlamento preliminare, ma che non fosse neppure semplice cassa di risonanza l’uno dell’altro. Nondimeno, la compresenza regolamentata di forme di partecipazione popolare. Infine, la Rigidità del testo costituzionale, la cui modifica era ammissibile con procedure ponderate ed abbastanza prolungate.
Rileggete, quindi, l’art. 1 della Costituzione nel suo secondo comma: La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione. E dunque una Costituzione materiale non intesa unilateralmente, attribuita ad un solo nucleo fondamentale, magari di maggioranza, ma sintesi dei valori e degli interessi consorziati quali risultanti dalle diverse forze presenti in Parlamento ed anche fuori di esso. A loro volta coagulate attraverso il libero confronto fra le classi sociali, chiamate insieme a reggere la sorte del Paese secondo criteri democratici. Il Partito Politico sarebbe, sempre per continuare la metafora iniziale, la facoltà di medicina e le sale di confronto fra chirurghi e studenti di fronte al corpo malato. Ma un ultima domanda ci resta di fronte alla sua ricetta: esistono valori costituzionali negoziabili e non negoziabili? In altri termini: resta aperto il quesito se lo stato di eccezione rimane sempre attivabile quando la democrazia è in pericolo e le salvaguardie previste da Mortati non sopportassero l’usura del tempo.
Circostanza che oggi sembra essere presente di fronte all’emergere di nuovi interessi sociali. Pensiamo cioè allo scontro fra ideologie fortemente identitarie e valori multietnici non del tutto metabolizzati in ampie fasce della società civile. Quale mediazione democratica?