Antonio. Dalla mulattiera al miracolo economico. Un libro di facile lettura

Ci può essere del buono anche nel male. Il corona virus ci ha costretto a un controllo dei nostri spostamenti, milioni di persone si trovano ristrette a tempo indeterminato fra le quattro pareti domestiche; e fra di esse ce ne sarà pure qualcuna che riscoprirà il vecchio fascino della lettura, in poltrona illuminata da una lampada, in un quieto angolo della casa.

A queste persone ci permettiamo di consigliare un libro particolare uscito nel novembre scorso, che è una specie di biografia romanzata scritta da Delio Miorandi e intitolata

„Antonio. Dalla mulattiera al miracolo economico“ (ISBN 978-88-85681-23-1).

Antonio è un nome comunissimo che l’autore usa come copertura, è lo pseudonimo di un personaggio autentico, un emigrato italiano in Germania morto da poco e la cui vera identità egli non intende svelare. Vediamo allora chi è l’autore

Delio Miorandi non è arrivato in Germania come Gastarbeiter, ma come studente universitario della facoltà di sociologia con una borsa di studio per l’Università di Francoforte. E non è un meridionale, è originario della bella città-fortezza di Rovereto in provincia di Trento, quella famosa per la gigantesca campana dei caduti della prima guerra mondiale. All’Università da poco riaperta si era ricostituita la mitica „Scuola di Francoforte“ che a tutt’oggi costituisce una colonna portante del pensiero filosofico del secolo scorso. Da essa si sono profilati nomi celeberrimi come Herbert Marcuse, Max Horkheimer, Theodor Wiesegrund Adorno e Jürgen Habermas, che sono considerati all’unanimità un punto di riferimento della teoria critica della società moderna. Non è un puro caso che la piazza centrale del nuovo campus universitario di Francoforte sia chiamata ufficialmente Adorno-Platz. Delio Miorandi ebbe il privilegio di seguire le lezioni del professor Adorno e di conoscerlo personalmente, e ne ha tuttora un ricordo molto vivo. Era una persona di straordinaria lucidità e coltissima, ma che non si dava alcuna aria di superiorità, ed era perfettamente accessibile per i suoi allievi. Sapeva parlare in maniera tale che non solo durante le sue lezioni, ma anche durante le camminate all’aperto, tutto il suo complesso argomentare dialettico sembrasse immediatamente comprensibile. Dopo la laurea e il diploma di assistente sociale, Miorandi ha fatto carriera nella Caritas tedesca di Friburgo, ed è stato iniziatore di numerose associazioni di lavoratori immigrati, ha fondato un centro culturale dei lavoratori stranieri in Germania, è stato presidente dell’Associazione degli Assistenti Sociali per l’emigrazione, ed ha ricevuto numerose onorificenze sia dalle autorità tedesche che da quelle italiane, culminanti con il titolo di commendatore conferitogli nel 2017 dal Presidente della Repubblica Italiana Mattarella.

Se l’opera più celebre creato allora da quella officina del pensiero francofortese, il classico Dialektik der Aufklärung, la „Dialettica dell’Illuminismo“ di Adorno e Horkheimer, è un testo assai arduo da leggere e riservato agli esperti della dialettica filosofica, di tutt’altra accessibilità è la narrazione della vita del povero Gastarbeiter Antonio, esposta in maniera molto piana e lineare da Miorandi, senza però rinunciare a mettere in evidenza i rapporti sociali costrittivi come solo lo può un esperto di sociologia.

Infatti Delio Miorandi non rimase chiuso nell’olimpo accademico, ma si preoccupò subito di osservare quel particolare fenomeno sociale che si stava svolgendo davanti ai suoi occhi: l’immigrazione dei Gastarbeiter italiani. „Mi trovai con loro durante la mia attività di studente in diverse ditte della regione“, scrive nella sua prefazione, „A suscitare il mio interesse furono le loro tragiche storie, i motivi per cui avevano lasciato la loro casa, le loro condizioni sul luogo di lavoro, i posti in cui abitavano. Per un giovane studente che viveva in una casa decorosa si trattò di uno shock, poiché la maggior parte di questa gente viveva in baracche primitive. Su alcune pareti c’erano ancora le scritte del periodo nazista alcune in lingua polacca, altre in lingua ebraica che io non capivo. Ma quel richiamo alle tragiche vicende del passato mi disse a sufficienza. Era una condizione irritante e indegna per delle persone e capii che era necessario raccontare per iscritto le mie impressioni“.

Raggiunta l’età della pensione, Miorandi ha trovato il tempo necessario per descrivere in forma di romanzo le vicissitudini di un emigrato, una storia vista dal basso, come ci spiega, delle vicissitudini di povera gente del sud costretta a lasciare le proprie case e i propri affetti, le proprie tradizioni e la propria lingua, portandosi appresso poche cose e molte speranze. Non si tratta però di un lavoro di compilazione in cui siano arbitrariamente cuciti assieme singoli episodi vissuti da persone diverse, ci ha assicurato l’autore: alla base della sua narrazione ci sono degli appunti e dei diari genuini e crudi lasciati dalla persona reale in questione, e che gli hanno richiesto un lavoro lungo e accuratissimo di lettura e catalogazione.

Il risultato è sorprendente, perché non ci si poteva aspettare che un accademico trentino potesse calarsi così bene nella mentalità di un proletario siciliano. Per questo egli ha adottato un linguaggio molto semplice, un periodare che sembra avere per modello „Fontamara“ di Ignazio Silone, senza far ricorso a invenzioni narrative perché nulla può essere più suggestivo della realtà.

L’Antonio di Miorandi si reca a Stoccarda come il Berardo Viola di Silone a Roma: entrambi le grandi città sono per loro, nati e vissuti in campagna, un mondo profondamente straniero, sconosciuto e ostile. Anche l’italiano scolastico che si parla nella capitale è una lingua straniera alla stregua del tedesco. Affrontare questo mondo metropolitano diventa per il protagonista una sfida che decide fra la vita e la morte.

Estraneo alle pretese letterarie e ai preziosismi linguistici, messo da parte ogni paludamento accademico, Miorandi adotta un linguaggio semplice ed efficace, un italiano volutamente umile e diretto come una parlata dialettale. Non esiste alcuna differenza, ha spiegato Silone, fra questa arte del raccontare, quest’arte di mettere una parola dopo l’altra una riga dopo l’altra, una frase dopo l’altra, una figura dopo l’altra, di spiegare una cosa per volta, senza allusioni, senza sottointesi, chiamando pane il pane e vino il vino, e l’antico artigianato contadino. Si lasci dunque ad ognuno il diritto di raccontare i fatti a modo suo.

Il suo Antonio Gioia, pur non essendo il „cafone“ abruzzese di Silone, è un bracciante siciliano che nel dopoguerra viene sfruttato, come molti altri, da un signore latifondista senza scrupoli. È un orfano di guerra, un analfabeta cresciuto in un misero tugurio di campagna, educato da uno zio che possiede solo un mulo e trascina la vita come una pesante catena di piccoli debiti per sfamarsi e di fatiche estenuanti per pagarli. Divenuto adulto in queste condizioni, Antonio tenta di sfuggire al proprio destino di miseria iscrivendosi nelle liste degli emigranti in Germania. Ma gli impiegati comunali glielo impediscono accampando pretesti da azzeccagarbugli, in realtà per non andare contro gli interessi dei signori locali, a cui devono il loro posto in municipio, e che vantano un diritto di prelazione su di quel servo. Antonio invece di scoraggiarsi s’infervora, ed allora si reca lo stesso in Germania, di straforo, come emigrante irregolare, rischiando in ogni momento di venire arrestato dalla polizia tedesca e venire rispedito in patria. I compaesani la chiamavano „via dell’arcobaleno“ ogni qual volta un giovane partiva per un paese ignoto.

Questo è il punto di partenza di tutte le peripezie che porteranno Antonio a regolarizzare la sua posizione ed un poco per volta a mettere radici nella sua nuova patria ed a trovare protezione presso qualche tedesco benevolente. La narrazione termina con le nozze di Antonio con la sua compaesana Assunta, che lo ha raggiunto dopo essere fuggita anche lei con uno stratagemma dai vincoli del suo paese.

Ma Miorandi sta preparando un seguito che dovrebbe estendere la narrazione fino all’epoca presente, raggiungendo un’estensione corale in questo romanzo dell’emigrazione.


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