Nella foto: Leonardo Sciascia nel 1978

Lo scrittore siciliano nacque cento anni fa, l’8 gennaio del 1921 a Racalmuto. Il suo pensiero radicale e illuminista manca più che mai dal lontano 1989, anno in cui ci lasciò. Intervista immaginaria a Leonardo Sciascia

Immaginiamo di averlo qui, a Francoforte, nelle stanze della nostra redazione. E immaginiamolo con la sigaretta in mano, con il suo passo lento e un mezzo sorriso sempre pronto a mostrare la sua infinita ironia.

Leonardo Sciascia, buongiorno! Lei è venuto in treno in Germania. Come mai non in aereo?

Amo il treno, mi dà la misura del viaggio. L’aereo, secondo me, ha distrutto il viaggio. Veniamo scaraventati, così, da un posto in un altro, senza mediazione culturale, senza attraversare il paesaggio, come se fosse un missile.

Per Lei, fare lo scrittore, è stato sempre piacevole?

Ma guardi, lo scrittore, in Sicilia, viene considerato una persona scomoda, uno che dice delle cose che non si dovrebbero fare sapere fuori, tanto che ho sempre ricevuto attacchi di questo genere, solo per aver parlato della mafia. Mi hanno persino rimproverato di aver danneggiato il turismo. Un po’ quel che succede con Roberto Saviano e altri giornalisti che parlano di criminalità organizzata, ecco. Ma, nonostante ciò, non ho mai lasciato la Sicilia, anche se ho rischiato l’isolamento.

Ne “La corda pazza” Lei ha scritto che, la Storia della cultura siciliana è tutta da rifare. In che senso?

Senza dubbio il fatto che siano sempre mancate delle ricerche in Sicilia, degli studi approfonditi che, invece, negli altri paesi sono stati fatti. Questa cosa ha gravato molto sulla nostra cultura. Solo per fare tre esempi: manca uno studio sui rapporti culturali della dominazione spagnola, poi manca anche una ricerca sulla storia dell’inquisizione in Sicilia e, infine, anche la storia della pirateria con le ripercussioni che ha avuto sull’economia dell’isola, è stata poco studiata. Poi arriva uno come Mack Smith e scrive un saggio proprio sulla Storia della Sicilia, uno di fuori, insomma. Smith ha suscitato le ire degli addetti ai lavori – cosa che francamente non capisco. Siamo praticamente arrivati all’autonomia della Sicilia, ma senza essere preparati e, infatti, l’autonomia non ha mai funzionato. Non sono mai stato un autonomista convinto, insomma. Ai siciliani, purtroppo, manca la coscienza della sicilianità, che io proprio per questo chiamerei sicilitudine, qualcosa che risiede tra ideologia e tradizione. I siciliani sono orgogliosi di esserlo, ma pochi conoscono le loro radici.

Cosa è mancato alla cultura siciliana per riformarsi?

Alla Sicilia è mancato l’illuminismo. La classe nobiliare e borghese siciliana ha impedito al viceré Domenico Caracciolo di riformare la nostra cultura. Addirittura oserei dire che la mafia, in un certo senso, è stata una specie di rivoluzione di una scarsa borghesia, l’unica possibile in Sicilia. Lo strumento illuministico, la ragione, è venuto completamente a mancare nella nostra terra. Sono uno di quelli che pensano che le civiltà nascano dalle inibizioni, dalle repressioni: ma la Sicilia si muove tutta a livello dell’Es, parlando in termini freudiani, vale a dire nel totale inconscio. Continuo ad essere convinto che la Sicilia offre la rappresentazione di tanti problemi, di tante contraddizioni, non solo italiani ma anche europei, al punto da poter costituire la metafora del mondo odierno.

Dunque la Sicilia è la terra dell’irrazionalità?

Cosa rispondere, se non che il siciliano è il prodotto della sua storia? È colpa sua se non ha mai davvero deciso da solo, se sono gli altri che hanno sempre agito per lui, in sua vece e luogo, romani, bizantini, piemontesi? Questo riflusso verso l’irrazionale non posso accettarlo, la salvezza è nella ragione, ma la ragione deve ancora venire. Insomma, i siciliani sono stati del tutto impermeabili alle dominazioni straniere, un’autentica identità sicula è riuscita a conservarsi attraverso i secoli – cosa che spiega una buona parte dei problemi di questa mia terra.

Ad esempio?

Ebbè, il ruolo della famiglia, ad esempio. È possibile che, in Sicilia, la famiglia non sbaglia mai? C’è anche un detto siciliano che dice proprio questo, fa parte della nostra cultura. Ma se una cosa è sbagliata, dico io, è sbagliata punto e basta. E, invece, se è un tuo famigliare a sbagliare, devi difenderlo sempre, a spada tratta – una cosa che non capisco e che grava sulla nostra mentalità.

Qual è il ruolo dell’intellettuale oggi?

L’uomo intellettuale, innanzitutto, deve stare sempre all’opposizione. Dunque, già la domanda contiene un presupposto che non accetto, perché l’intellettuale non deve avere nessun ruolo, deve fare quello che vuole, dev’essere impegnato e non deve predisporre il suo impegno.

Quale intellettuale siciliano bisogna rivalutare, secondo Lei?

Uno scrittore siciliano poco letto è Vitaliano Brancati, che ho sempre amato. Inoltre mi preme indicare anche Maria Messina, una scrittrice che ha dedicato parte della sua opera alle giovani siciliane. E anche Vann’Antò, un poeta grazioso, ragusano, infinitamente bravo nel ricalcare il dialetto siciliano.

Ma è vero che gli scrittori siciliani soffrono l’insularità?

L’insularità in Sicilia è un fatto. Gli uomini che vivono sulle isole sono diversi. La Sicilia, però, è terra letteraria. Il dialetto tende a scomparire, ma d’altra parte voler conservare quello che deve può morire sarebbe un’operazione necrofila. È inutile essere finti conservatori laddove la battaglia è persa fin dall’inizio.

Qual è, a proposito, la differenza tra il conservatore e il reazionario?

Il conservatore vuole conservare il meglio, il reazionario vuole perpetuare il peggio.

Lei è stato uno dei primi che ha scritto sulla mafia chiamandola per nome, senza usare metafore. Ma la mafia, secondo lei, si può sconfiggere?

Certamente. Come diceva Falcone, la mafia è un evento umano e, dunque, destinato prima o poi a morire. Serve, però, una cultura dell’anti-mafia, una specie di contro-cultura, che in Sicilia, pian piano si sta formando. Tutto qui.

Vuole mettere, a proposito, un punto sul polverone che sollevò il Suo articolo nel Corriere della Sera, nell’ormai lontano 1987, “I professionisti dell’antimafia”?

Ma vede, questa fu una vicenda che mi dispiacque molto. Non volevo assolutamente polemizzare con Paolo Borsellino. In quell’articolo, che fu incredibilmente travisato, io intendevo semplicemente dire che il Consiglio superiore della magistratura avrebbe dovuto stabilire delle regole, niente di più e niente di meno. Borsellino l’hanno fatto passare come un rampante della carriera.

Grazie per la Sua disponibilità e mi saluti il mare una volta tornato in Sicilia.

Le dirò una cosa che può sembrare strana: a me il mare non piace, non ci vado mai. Condivido questa cosa con molti siciliani, specialmente quelli dell’entroterra. Addirittura ci sono città della costa, come ad esempio Gela, che non hanno neanche un marinaio. Strano ma vero. Comunque non mancherò a portare il saluto.

L’intervista, puramente immaginaria, è basata in parte su alcune interviste rilasciate dallo scrittore e in parte ad alcuni articoli dello stesso Sciascia.

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