Nella foto: Prof. Dr. Antonio Ciccone, Universität Mannheim Abteilung Volkswirtschaftslehre. Foto di ©Universität Mannheim

GERMANIA – Indagine scientifica sugli effetti dell’immigrazione

Quanti italiani hanno percorso all’indietro il percorso di vita del loro mitico Kaiser Federico II? Dal Suditalia alla Svevia… Finora abbiamo presentato scienziati italiani che con il loro apporto si sono guadagnati una posizione prominente nel mondo universitario tedesco. Ma non dobbiamo trascurare un campo fondamentale per la società come Economia e Commercio.

Molti risultati della ricerca in questo campo ha portato a risultati illuminanti sul mondo moderno. Abbiamo incontrato il prof. Antonio Ciccone, professore di macroeconomia presso l’Università di Mannheim, poco prima di Natale in una elegante e squisita Konditorei nel centro di Francoforte.

Da dove viene la Sua famiglia e come è arrivato in Germania?

La mia famiglia -sia mia madre che mio padre- viene da Villanova del Battista, un piccolo paese vicino ad Ariano Irpino. Per primo è arrivato mio padre. Aveva lasciato il paese perché non voleva fare il contadino, voleva invece diventare verniciatore. Via Roma, attraverso la Svizzera, è andato a finire a Neckarsulm, alla NSU che oggi è l’AUDI. Voleva rimanere in Germania qualche mese e invece sono diventati più di 55 anni. Credo che sia andata così per molti italiani che sono arrivati in Germania a quell’epoca. Più tardi è venuta anche mia madre, ha cominciato anche lei a lavorare in fabbrica. Alla fine mio padre e mia madre avevano una propria carrozzeria vicino ad Heilbronn. Adesso sono in pensione. Io sono nato all’ospedale di Avellino, e sono venuto a vivere permanentemente in Germania dopo i miei genitori, Mia sorella e mio fratello invece sono già nati in Germania. Ho fatto l’asilo e le scuole elementari vicino a Neckarsulm, a Obereisesheim e poi il liceo l’ho fatto a Neckarsulm.

Per entrare al liceo non ha dovuto superare quegli ostacoli che incontrano tanti scolari italiani?

Abituarsi al funzionamento della scuola in Germania non è stato facile. Per gli italiani c’erano ostacoli legati alle differenze tra la cultura italiana e quella tedesca dell’epoca. E a casa parlavamo italiano, di solito il dialetto die nostri genitori. Un ulteriore fattore è stato che molti bambini italiani, prima della scuola elementare, avevano trascorso poco tempo nell’asilo tedesco, perché c’erano pochi posti ed i bambini tedeschi avevano la priorità. Ma non mi ricordo di aver incontrato ostacoli personali. Quello che mi ricordo è che ero uno dei peggiori ad effettuare il salto dalla scuola elementare al liceo. In Germania c’è il famoso voto medio del 2,5 per poter entrare al liceo, ed io avevo 2,3. Nessuno nel mio ambiente mi ha posto ostacoli, nessuno ha detto „No, questo ragazzo non deve andare al liceo“.

E poi, fatto l’Abitur, come sono proseguiti i Suoi studi?

Sono andato a studiare economia a Freiburg. Poi, dopo un anno, ho vinto una borsa di studio del Consolato di Stoccarda per andare a studiare per mezz’anno la lingua italiana a Siena. Là ho cominciato a imparare l’italiano ed ho anche conosciuto mia moglie. Poi sono tornato in Germania e ho proseguito gli studi a Costanza. Da quel momento in poi avevo una borsa di studio della Deutsche Studienstiftung. Però non ho mai finito gli studi in Germania perché avevo l’ambizione di andare a studiare alla London School of Economics in Inghilterra Mi avevano detto che l’economia s’insegnava in un’altra maniera e che era una delle migliori università in economia del mondo. Ci ho provato ed ho avuto fortuna, sono entrato. E così me ne sono andato dalla Germania nell’estate del 1988, avevo 22 anni.

E poi ha proseguito in America?

Sì, a Londra ho fatto un master in economia, mi è andata bene, e da quel momento ho avuto molte opportunità negli Stati Uniti, e alla fine ho deciso di fare il dottorato all’Università di Stanford in California. Il mio primo lavoro è stato come Assistent Professor a Berkeley, che è molto vicina a Stanford, e sono rimasto negli Stati Uniti fino al ‘98. In Germania sono tornato nel 2013, adesso sono quasi 10 anni. Prima prima sono stato professore all’Università di Barcellona. Mia moglie è di Barcellona.

Ci racconti della Sua ricerca qui in Germania…

È un argomento che mi ha sempre interessato. Con un collega, Jan Nimczik, abbiamo analizzato gli effetti economici die quasi 8 milioni di profughi della seconda guerra mondiale nella Repubblica Federale Tedesca nel 1950. Questi profughi – che in tedesco si chiamano Heimatvertriebene- erano più del 15% della popolazione nel 1950. È stato di gran lunga il più grande movimento migratorio che la Repubblica Federale abbia mai vissuto.

Questi profughi da dove venivano?

Gli Heimatvertriebene provenivano da zone che oggi si trovano oltre la frontiera orientale della Germania. Una caratteristica particolare era che la maggioranza parlava il tedesco. Ma non è stato comunque facile per loro. Avevano perso tutto in guerra e non sempre erano accettati alla pari dalla popolazione locale. Günther Grass, un premio Nobel per la letteratura. Ha descritto nei suoi libri la difficile esperienza degli Heimatvertriebene nella Germania dell’epoca. L’integrazione ha richiesto molto tempo.

Quali sono i risultati del vostro studio?

Che nelle zone in cui si sono insediati questi profughi di guerra oggi si pagano salari più alti e che le aziende in quelle zone sono più produttive. Questi risultati si basano su dati di tutte le aziende presenti oggi nelle zone che studiamo. Abbiamo trovato interessante che ciò avvenga ancora oggi, più di 75 anni dopo il loro arrivo. Troviamo inoltre anche che le famiglie di queste aree hanno redditi più elevati.

Come si spiegano questi effetti economici?

La spiegazione non è poi così sorprendente. Dove i rifugiati si erano insediati in quel periodo, la densità di popolazione è aumentata. Questo ha portato a una maggiore densità di imprese. Di conseguenza, queste aree sono diventate complessivamente più attive dal punto di vista economico. Nel lungo periodo questo porta a una maggiore produttività e a salari più alti. Questo è anche ciò che accade generalmente nelle città, ad esempio. La loro maggiore attività economica porta ad una maggiore produttività e a salari più alti.

Potrebbe spegarci quale metodo scientifico ha utilizzato per determinare gli effetti economici della migrazione?

Abbiamo approfittato di una particolarità storica. Dopo la fine della seconda guerra mondiale nel 1945, la Germania restò divisa in quattro zone d’occupazione fino al 1949. La zona d’occupazione statunitense permetteva l’afflusso die rifugiati. Ma la zona d’occupazione francese ne limitava fortemente l’afflusso. Questo ha portato a grandi differenze nel numero di rifugiati fra comuni molto vicini fra loro, ma che tra il 1945 e il 1949 si trovavano su due lati diversi del confine fra le due zone d’occupazione statunitense e francese. Proima della seconda guerra mondiali questi comuni, poiché erano contigui, erano molto simili. Ma dopo l’arrivo die profughi i comuni con più Heimatvertriebene si sono sviluppati in maniera migliore dal punto di vista economico.

Potrebbe allargare la Sua ricerca anche all’emigrazione italiana?

L’intenzione c’è, ma dobbiamo trovare l’opportunità. La sfida è che l’immigrazione. Quando può scegliere, va sempre nella zona di maggiore attività economica. Allora la questione è: è stato il potenziale economico a o l’immigrazione a portare al successo economico? In effetti nel caso degli Heimatvertriebene abbiamo avuto fortuna a individuare questa particolare situazione così pulita, da laboratorio, potremmo dire. Con l’emigrazione italiana tutto diventa più complicato perché ci sono molti parametri in gioco.

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