
Non sempre la vita ti premia subito. A volte devi aspettare, insistere, resistere. Ma se ci metti onestà, costanza e cuore, qualcosa di buono arriva (Di LElla)
Con l’accordo italo-tedesco sul reclutamento della manodopera italiana, siglato il 20 dicembre del 1955, inizia il grande esodo verso una Germania da ricostruire. Si accende così per molti giovani italiani quel barlume di speranza, orientato verso l’inizio di un percorso di lavoro e guadagno, ma anche di sacrifici, separazioni e solitudine.
In quelle valigie di cartone vi erano molte speranze e desideri di una vita migliore, nonostante l’alto prezzo delle separazioni affettive Bruno Di Lella è uno dei tanti esempi di quegli anni ’60.
Nato a Sannicandro Garganico (Foggia), il primo settembre ’47, all’età di 10 anni viene lasciato in affidamento alla nonna paterna (Maria), mentre i genitori con il figlio maggiore staccano il biglietto per Köngen/Stoccarda dove si erano già insediati alcuni paesani.

Nel 1963 l’intraprendente Bruno, però, convince la nonna ed i suoi genitori a lasciarlo trasferire da una zia a Roma dove però, desideroso di indipendenza, dopo poco tempo va ad stare in una stanzetta presso una famiglia romana. Frequenta l’Istituto di Ragioniera, fa amicizia con i suoi compagni di scuola e al termine dell’anno scolastico raggiunge i genitori in Germania. Attratto dalla possibilità di guadagnare e dalla necessità affettiva di ricongiungersi alla famiglia, decide di porre fine alla solitudine. Bruno ricorda così il suo stato d’animo e la sua ferma decisione di restare in terra sveva:

La mia infanzia era stata segnata dalla privazione della quotidianità della vita familiare. È il prezzo che ho pagato anch’io per un futuro migliore per tutto il nostro nucleo familiare. Nonostante l’affetto e le premure, mia nonna non riusciva a colmare il vuoto provocato dalla solitudine. Il mio rifugio era l’oratorio dove si giocava a pallone e a calcetto, si guardava la tv insieme, si facevano giochi di gruppo, era un luogo in cui riuscivo finalmente a sentirmi parte di qualcosa. Al secondo anno di Ragioneria, un forte senso di malinconia e il desiderio di cambiare mi spinsero a lasciare la casa di mia nonna per Roma. Fu una decisione difficile, ma sentivo che dovevo fare quel passo.
Lasciare Sannicandro Garganico per Roma non fu certamente una scelta presa a cuor leggero. Come fu l’impatto con la capitale?
All’inizio fu uno shock: tutto era diverso, immenso, sconosciuto. Ma fu anche un periodo bellissimo della mia adolescenza, fatto di scoperte, libertà e avventure. Purtroppo, però quel periodo si concluse con una delusione. Non riuscii a superare l’esame di Stato per il diploma. Avrei potuto recuperare „a settembre”, ma quell’opportunità non si concretizzò mai. Nel frattempo, un’idea cominciava a tormentarmi sempre di più: la voglia di conoscere la Germania.
Perché nell’estate del 1970 scegliesti di raggiungere i tuoi genitori e di non tornare più a Roma?
La Germania era diventata per me un richiamo forte, una curiosità che non mi dava pace, perciò cercai e trovai impiego alla ITT Schaub-Lorenz di Stoccarda-Zuffenhausen. Il mio obiettivo era di mettere da parte un po’ di soldi per comprarmi una macchina. Lavorando a turni e anche il sabato, riuscivo a guadagnare ben 850 marchi al mese. Non dovendo consegnare soldi ai miei genitori, già a novembre dello stesso anno comprai la mia prima macchina, ovviamente usata.
Avendo interrotto la scuola non dovevi presentarti al Distretto militare o all’Ufficio Leva del consolato per la famosa “Dispensa” per motivi di lavoro all’estero?
Avendo lasciato l’Italia senza proseguimento della scuola e senza richiesta di rinvio per motivi di lavoro in Germania, mi pervenne la denuncia dal Distretto militare di Foggia. Perciò tornai subito in Italia per assolvere agli obblighi di leva.
Perché tornasti di nuovo in Germania?
Ritornai a Stoccarda per costruirmi una vita più stabile. Questa volta trovai lavoro presso la Ditta Di Gennaro, un’azienda leader nell’importazione di prodotti alimentari. Fu un’opportunità importante poter lavorare per un’impresa solida, conosciuta, che mi offriva sicurezza e possibilità di crescita.
Perché optasti di lavorare presso un’azienda italiana per di più del tuo stesso paese natio?
Quel lavoro fu per me un nuovo inizio. Non era solo un impiego: era un modo per ritrovare i sapori che mi mancavano e con l’impegno e la soddisfazione di farli conoscere agli altri. Vivere in Germania, per quanto pieno di opportunità, significava per me anche convivere con la nostalgia. Tra le cose che mi mancavano di più, c’era senza dubbio il gusto italiano. E vorrei dire anche che è falso ritenere che tutti gli imprenditori italiani siano cattivi pagatori. Io mi sono sempre trovato bene, con pagamenti regolari.

Perché avvertisti la necessità di fondare un’associazione italiana a Köngen, cittadina alle porte di Esslingen/Stoccarda?
Una delle cose che mi colpiva di più, era vedere gruppetti di italiani riuniti a parlare, discutere, raccontarsi le esperienze della giornata. In quei momenti si respirava un senso di appartenenza, di familiarità, quasi di casa. Proprio da questa osservazione nacque l’idea di creare un’associazione di connazionali con l’obiettivo di promuovere momenti di incontro e svago, per rendere più piacevoli le giornate non lavorative e rafforzare i legami tra di noi. Organizzavamo attività per bambini, eventi culturali, feste tradizionali, ma anche tornei di calcio. Avevamo una bellissima squadra: un gruppo unito, pieno di entusiasmo. Partecipavamo a coppe e manifestazioni sportive che, più che competizioni, erano vere e proprie occasioni di incontro e condivisione. Tutte queste iniziative avevano un effetto straordinario, ci facevano sentire meno soli, ci aiutavano a creare una vera comunità. Anche se lontani dalla nostra terra, ci sentivamo vicini nel cuore.
Perché, secondo te, si è perso questo spirito di aggregazione nella comunità italiana o pseudo tale?
Oggi purtroppo le nuove generazioni si ritrovano solo sui social, su Facebook o WhatsApp. Manca il desiderio di costruire qualcosa insieme, nel mondo reale. Manca il contatto umano, la voglia di incontrarsi davvero, di guardarsi negli occhi, di collaborare per il bene comune. Ecco perché è importante ricordare e, se possibile, far rivivere quello spirito. Una comunità forte nasce dal sentirsi parte di qualcosa, dal fare insieme, dal vivere insieme.

Non sempre però è tutto oro ciò che luccica! Dopo il matrimonio hai dovuto affrontare anche dei momenti difficili, legati ad un primo negozio di generi alimentari. Come ne venisti fuori?
Iniziai a lavorare anche presso la ditta Di Bari ai mercati generali, Si lavorava solo di notte, un sacrificio enorme, ma necessario per risolvere i problemi economici. Quel periodo fu per me molto faticoso e triste. Dormivo poco, lavoravo tanto, e portavo addosso il peso delle responsabilità. Con la crescita dei nostri tre figli, quella vita divenne insostenibile. Decidemmo allora di chiudere la nostra attività, e nel 1985 tornai di nuovo e definitivamente alla Ditta Di Gennaro, stavolta come venditore di prodotti alimentari di alta qualità. Quella fu la mia svolta. Il lavoro da venditore si rivelò una vera soddisfazione personale e professionale. Ogni giorno entravo in contatto con clienti nuovi – locali tedeschi e italiani – ai quali facevo conoscere la qualità e la bontà dei nostri prodotti. Era impegnativo, ma profondamente gratificante. Con il tempo diventai un punto di riferimento per molti clienti e colleghi. La fiducia che mi dimostravano era il riconoscimento più grande per tutti i sacrifici fatti in passato. Anche la mia famiglia cresceva: i miei figli completarono gli studi e scelsero strade diverse dalla mia. Oggi ne vado fiero perché hanno scelto liberamente il proprio cammino, proprio come avevo fatto io, tanti anni prima. Questa lunga strada – fatta di sacrifici, cadute, cambi di rotta e ripartenze – mi ha insegnato una cosa fondamentale: la dignità del lavoro, anche il più duro, lascia un segno profondo. Non sempre la vita ti premia subito. A volte devi aspettare, insistere, resistere. Ma se ci metti onestà, costanza e cuore, qualcosa di buono arriva.
Da quante persone è composta oggi la tua famiglia?
Da 14 persone: io e mia moglie Incoronata, i nostri tre figli (due maschi e una femmina), tutti laureati e con un bellissimo impiego in tre settori diversi. Sono felicemente sposati, con due nuore e un genero, e insieme ci hanno donato sei splendidi nipoti. Siamo una famiglia numerosa, affiatata e molto legata. Dopo aver conseguito il diploma di laurea, ognuno dei nostri figli ha intrapreso con successo una carriera in ambiti professionali distinti: Giuseppe, laureato in Ingegneria Meccanica presso Universität Stuttgart, con specializzazione in motori a combustione e tecnologia dei veicoli, lavora come ingegnere dello sviluppo per i sistemi di batterie ad alta tensione e ha ricoperto ruoli di responsabilità come Motorverantwortlicher nella progettazione dei motori AMG V8 e Pagani V12, presso Mercedes-AMG GmbH ad Affalterbach (Baden-Württemberg).
Sebastiano, laureato in Tecnologia dei Materiali Plastici presso la Hochschule Aalen – Technik und Wirtschaft, è oggi Senior Expert in materie plastiche con focus su sostenibilità e riciclabilità presso TÜV SÜD Product Service GmbH a Monaco di Baviera.
Mentre Lucia, laureatasi all’Università di Heidelberg (Baden-Württemberg) come Interprete e Traduttrice per inglese, tedesco, italiano e ovvero tedesco, si occupa di Marketing Digital presso il Headquarter della Mercedes–Benz Group AG Stuttgart Baden-Württemberg.
Mia moglie Incoronata ed io siamo ovviamente molto orgogliosi dei loro risultati, non solo professionali, ma anche familiari. Ogni traguardo raggiunto da loro è una gioia condivisa da tutta la nostra bella famiglia.
All’anagrafe hai 78 anni, ma continui ad essere attivo tre giorni alla settimana. Perché?
Lavoro non per necessità, ma per scelta: per restare attivo, utile, e connesso a una realtà che sento ancora mia.
Hai qualche rimpianto?
No, non ho rimpianti. Sono contento di come sono andate le cose. Certo, qualcosa si è perso: i legami con l’Italia si sono affievoliti nel tempo, e anche per chi, come noi, ha la doppia cittadinanza, l’idea di tornare definitivamente in Italia è diventata sempre più lontana, quasi irrealistica. Anche da pensionati, il ritorno non è semplice e spesso manca quel filo che una volta ci legava saldamente alla terra d’origine. E poi c’è un pensiero che ogni tanto mi attraversa: sarebbe triste vedere i nostri figli rifare le valigie per tornare a cercare lavoro là dove noi lo avevamo lasciato tanti anni fa. Il nostro cammino, i nostri sacrifici, non erano per ripetere il ciclo, ma per spezzarlo, per offrire loro scelte diverse, più libere. Una cosa che mi ha sempre colpito e un po’ amareggiato è come la cucina italiana venga trattata nei ristoranti qui in Germania. Oggi, solo un 15-20% si può dire ancora fedele alle vere tradizioni italiane. Il resto è stato „modellato“ sui gusti tedeschi, perdendo molto dell’autenticità. Capisco che sia anche una questione commerciale, ma vedere snaturata una parte così profonda della nostra cultura fa un certo effetto. La cucina italiana non è solo cibo, è identità, è storia, è famiglia. Dico questo non per nostalgia, né per rimpianto, ma per lasciare una traccia, poiché le storie di chi è partito, si è adattato, ha costruito e si è anche un po’ perso lungo la strada, meritano di essere ricordate.
La storia di Bruno Di Lella trova similitudini certamente nella vita di altri innumerevoli connazionali.




























