Nella foto: Il passo del Brennero. Foto di ©Daniele Messina

Il “Viaggio in Italia” di Johann Wolfgang Goethe

Da Karlsbad al Brennero

“In casa, ad attirare il mio sguardo, era soprattutto una serie di vedute romane con le quali mio padre aveva ornato un’antisala, incise da valenti predecessori di Piranesi, che s’intendevano di architettura e di prospettiva. Era qui che vedevo ogni giorno Piazza del Popolo, il Colosseo, Piazza San Pietro, la basilica di San Pietro, Castel S. Angelo e tante altre cose… Mio padre impiegava gran parte del suo tempo nella descrizione del viaggio in Italia scritta in italiano”. Ecco spiegato come per il giovane Goethe l’Italia fosse divenuta la meta di un sogno cullato fin dall’infanzia.

Quel viaggio in Italia era stato progettato da tempo, ma alcuni imprevisti lo avevano costretto a continui rinvii. Finalmente giunse l’occasione propizia e Wolfgang la colse al volo, senza dir niente a nessuno, piantando i festeggiamenti e l’allegra brigata di amici che il 28 agosto si erano raccolti attorno a lui per festeggiare il suo 37° compleanno.

“Il 3 settembre 1786. Alle tre del mattino partii di soppiatto da Carlsbad”, così inizia il suo diario. “La compagnia che aveva voluto festeggiare con tanta amorevolezza il mio giorno natalizio, avrebbe avuto pure qualche diritto a trattenermi ancora, ma ormai non era più il caso d’ulteriore indugio. Salii affatto solo in una sedia di posta, non recando meco altro che un portamantello ed una valigia”.

Si era trattato di un vero coup de theatre, studiato da un drammaturgo amante delle scene e consigliato nel suo soggiorno termale di Karlsbard dall’amica contessa Aloisia Lantieri, complice esclusiva del poeta, della cerchia del duca di Sachsen-Weimar-Eisenach, Carl August, di cui Goethe era consigliere segreto. Non l’avrebbero potuto trattenere né il calore degli amici che in occasione della sua festa l’avevano omaggiato “con parecchie poesie, nelle quali facevano parlare i miei lavori trascurati” né il timore delle loro risa per i suoi comportamenti strani né l’inevitabile scalpore dell’ambiente di Corte, espresso qualche giorno dopo dalla duchessa Ana Amalia, che tacciava “il signor consigliere segreto di diserzione, da trattare con il massimo rigore del diritto di guerra”.

Wolfgang, il fuggitivo

Goethe, in una pagina di diario di qualche giorno dopo, ammetteva che il suo viaggio era “una vera fuga”, ma “motivata da tutte le ingiustizie alle quali mi ero trovato esposto”. Si sentiva proprio un “fluchtling”, un fuggitivo senza pace. Eppure avrebbe dovuto già sentirsi realizzato, a 37 anni appena compiuti, dopo la pubblicazione di alcuni suoi capolavori (Werther, Meister, Tasso) e la prima stesura di gran parte delle opere della maturità. Invece si sentiva come legato da tanti vincoli: dalla cortigianeria dell’ambiente ducale, dalle formalità, dai protocolli e dalla burocrazia del piccolo Stato di Weimar, dalle difficoltà che continuavano a condizionare il suo rapporto con le donne, da quel mondo chiuso che l’aveva portato ad uno stato di passività ed indifferenza e soprattutto alla crisi della sua creatività.

“Tutto questo e varie altre circostanze mi spingono a smarrirmi in regioni del mondo ove nessuno mi conosca. Parto solo, sotto nome incognito e da questa impresa apparentemente stravagante mi riprometto il meglio possibile”. Questo è il suo ”male oscuro”, queste le speranze che confidava in una lettera al duca Carl August scritta la vigilia della sua partenza.

Lo sosteneva una certezza, che avrebbe trovato quei cieli nuovi, quella terra nuova che cercava nella sognata Italia, così luminosa, calda e viva. Per questo aveva portato con sé la raccolta di tutti i suoi scritti “allo scopo di metterli in ordine per la nuova edizione” e “le copie accurate di quelli inediti”, lavori che aveva “steso solo in parte secondo la cattiva abitudine di cominciare molte cose alla volta e poi di abbandonarle”.

Primi effetti del viaggio

Sarà stato il sole limpido e splendente di Eger, saranno state le prime belle giornate autunnali, fatto sta che si andavano ridestando il suo spirito di osservazione e la sua nuova disponibilità verso tutto quello che incontrava. Per cui non si lasciava andare alle lamentele di suo padre Caspar per le strade sconnesse o per il discutibile comportamento dei postiglioni, ma si divertiva ad esprimere tutta una serie di apprezzamenti per la massicciata della strada liscia e compatta e di attente osservazioni sulle conche fluviali e sullo scorrere delle acque, sulle posizioni amene delle città (Ratisbona, Benedictbeuer, Innsbruck) e sulle belle contrade.

Si riaccendeva anche il suo interesse per le caratteristiche climatiche, geologiche, botaniche dei vari ambienti, da studioso esperto ed appassionato di geologia, di mineralogia e di meteorologia. Erano il sole splendente, le nubi più leggere, la temperatura più dolce, i primi dati che Goethe annotava. Aveva anche elaborato una sua teoria su “un’azione segreta dei monti”, sul variare “della loro forza di attrazione, su certe pulsazioni regolate da principi interni e da accidenti esteriori” che avrebbero determinato le variazioni dell’atmosfera. Ma forse si trattava solo di un suo “capriccio”, premetteva nelle sue note dell’8 settembre, e si scusava con i lettori per il suo “parlare così sovente del vento, del sole e della pioggia”, indotto dalla sua condizione di “viaggiatore per terra, alle dipendenze del tempo”.

Più sicuro era il suo occhio di osservatore, quando si soffermava a cogliere la conformazione dei monti, dei pendii delle valli e dei terreni coltivati. Nei dintorni del Brennero si soffermava a descrivere la “catena di monti calcarei che si appoggia ai monti primitivi ricchi di quarzo e di argilla, grigi di tinta, dalle forme belle, singolari, irregolari, a strati, in cui si distinguono la verde ardesia, il quarzo, la mica, e, salendo, lo gneiss ed il granito”.

Quanto alla vegetazione ammetteva di non aver l’occhio altrettanto allenato. Qualche annotazione la riservava ai pascoli, “che salivano verso la sommità dei monti”, alla prima genziana “in vicinanza delle acque”, ai campi coltivati nei terreni fertili del fondo valle e alla prima frutta trovata nei dintorni di Ratisbona, “non di qualità straordinaria… qualche buona pera, ma sospiro per l’uva ed i fichi”. I fichi li avrebbe trovati nella zona di Monaco, “fichi eccellenti”, ma per l’uva avrebbe dovuto scendere “sotto il quarantottesimo grado”. L’attesa della “terra promessa” si faceva sempre più pressante ed il suo viaggio sempre più incalzante. Eppure passava per contrade “bellissime” (Zierl), per paesaggi “stupendi”, per città in festa (Innsbruck) per giungere infine a valicare il Brennero.

L’atteso sollievo della “vera Italia”

Tante le cose che si presentavano ai suoi occhi diverse e più attraenti. Anche la popolazione gli sembrava particolare, con fisionomie caratteristiche “occhi neri, di un bel taglio, ciglia brune ben disegnate, bionde le donne”. Portavano “cappelli di color verde” e ne facevano “bellissima vista, ornati con frange e nastri di seta fissati nel modo più grazioso e con un fiore od una piuma sul cappello”.

L’umore di Wolfgang cominciava decisamente a migliorare, sentiva quella temperatura “pienamente consentanea” alla sua natura, mentre il suo spirito di osservazione si faceva sempre più attento e più vivo l’interesse. La sua crescente irrequietezza lo portava ad accettare un viaggio ininterrotto di 50 ore pur di arrivare quanto prima a Trento e quindi alla “vera Italia”. Sentiva di aver fatto bene a portare con sé le carte dei suoi manoscritti, in particolare quelle dell’Ifigenia. Era finalmente giunto nella “bella e temperata contrada” dove “le stupende immagini del mondo esteriore, il moto e l’aria libera avrebbero promosso lo sviluppo del sentimento poetico”.

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