Va subito detto che, se si esclude la Missione di Mainz, non abbiamo nostri luoghi di culto, da poter gestire in modo autonomo e quindi anche da adattare alle tradizioni religiose italiane: siamo tutti in affitto, utilizziamo cioè le chiese delle parrocchie tedesche presso le quali abbiamo la sede o dove è più alta la concentrazione di connazionali. Qualche missione ha adibito una stanza o una sala a cappella, ma per un uso interno, per la preghiera quotidiana del sacerdote o di piccoli gruppi, non per l’assemblea domenicale.
Questa in genere avviene entro spazi di culto molto vasti, risalenti ad una struttura architettonica segnata una cultura liturgica preconciliare, in orari spesso impossibili, concordati con una controparte (parroci, segretarie, sacristi,…) a volte intrattabile, e, se si escludono poche grandi solennità (Natale, Le Palme, Pasqua), con una modesta presenza di connazionali, sparsi oltre tutto un po’ in tutta la chiesa e con alle spalle anche parecchi chilometri di strada. Un insieme di elementi che non agevola certamente l’incontro, il trovarsi assieme attorno al Risorto, nell’ascolto della sua parola e nel segno del pane eucaristico condiviso, per festeggiare e proclamare la fede.
L’invito a venire nei primi banchi, il più vicino possibile all’ambone e all’altare (fortunato chi ci riesce!), il più vicino possibile l’un l’altro, per creare anche visibilmente una comunità orante, può diminuire il problema, ma non lo risolve. Lo attutisce inoltre il fatto che i fedeli abituali sono sempre più o meno gli stessi, permettendo almeno una formazione continua ed un contatto stabile. Sono alcuni dei noti disagi delle minoranze e della mobilità umana, che comunque alla fine ci fanno ricordare che la vita terrena è solo un grande pellegrinaggio verso un altro tempio, non più in affitto ma dono gratuito di Dio per l’eternità.
Dai limiti sopra descritti deriva la necessità di puntare, più che sul luogo del culto (mai ottimale, e non fondamentale) e sulla perfezione del rito (importante ma sempre formale ed in fondo marginale), sulla qualità delle nostre liturgie, secondo l’indicazione stessa di Gesù, nel suo dialogo con la Samaritana: “Viene un’ora in cui né su questo mondo né a Gerusalemme adorerete il Padre. (…). Viene un’ora, ed è adesso, in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in Spirito e verità” (Gv. 4,21.23). Il vero luogo del culto, dell’incontro con Dio, è prima di tutto la persona, il suo cuore, la sua intimità.
Qui si devono concentrare la nostra attenzione ed i nostri sforzi. Se la preghiera non parte e non avviene li, è solo esibizione, messa in scena; si rischia di trasformare le liturgie in un rito che soddisfa l’occhio, l’estetica, che appaga le emozioni, ma non opera molto in profondità, non cambia la vita, non permette di incontrare Dio. Il problema vero allora è: come toccare e coinvolgere il cuore dell’assemblea. Non ci sono ricette, almeno io non ne conosco.
Strumenti sì, e tanti. La scelta formativa da diversi anni messa in atto dalle nostre Comunità, è sicuramente una pista importante. Il coinvolgimento attivo di tutti i partecipanti (nel canto, nelle letture, nelle preghiere, nella preparazione, nella gestione delle diverse parti) è una premessa fondamentale, ineludibile, per togliere spazi alla passività, il vero cancro nel culto di Dio. L’onnipresenza del sacerdote, in fondo chiamato a presiedere e guidare l’incontro, rischia di esautorare la responsabilità di ognuno davanti a Dio anche nei momenti comunitari.
L’assemblea, come soggetto attivo di culto, di preghiera, ha bisogno di stimoli e di segni concreti, che offrano allo spirito una visibilità e gli permettano di uscire dal letargo. L’incontro con Dio non può essere che una festa, una festa di tutti e per tutti, una gioia che tocca dentro perché parte da dentro. Se è Dio attraverso la fede che convoca in assemblea, la liturgia diventa allora la celebrazione comunitaria della fede, la festa della fede, il momento simbolico dell’intera vita cristiana.
Il che avviene in particolare nella celebrazione eucaristica: come memoria di un passato che ci ha generati, come segno di un presente che vogliamo vivere in pienezza, come progetto salvifico di un futuro che aspetta il nostro contributo. Il tutto sperimentato come dono di Dio. Sappiamo bene infatti che le nostre liturgie, anche le più perfette, non aggiungono nulla a Dio. Lui non ne ha bisogno, noi sì.
Perché di fronte al suo nome, proclamato e celebrato, di fronte al suo volto, adorato e festeggiato, noi scopriamo noi stessi, come sue creature, suoi figli sempre amati, come sua famiglia chiamata a crescere nella fede, nella speranza, nella carità. Il culto di Dio è vero solo quando porta ad un autentico culto dell’uomo. Le nostre liturgie sono riuscite quando ci portano al servizio dei fratelli, quando non si fermano in chiesa ma si estendono alla vita quotidiana, come disponibilità a incontrarli e onorarli in casa, sul lavoro, a aiutare il prossimo incappato nei briganti. Quando sono ancorate nella realtà, ci ricordano, per esempio, che siamo parte attiva di questa Chiesa che è in Germania.
Ecco perché dovrebbero sempre includere almeno una preghiera o un pensiero in tedesco, come ponte del resto, o gesto di attenzione, ai fedeli d’altra madre lingua (non necessariamente tedesca) sempre presenti ai nostri momenti di culto, per i tanti matrimoni binazionali, le tante amicizie internazionali, la diffusa simpatia per le tradizioni religiose italiane. E qui non possiamo ignorare come le messe binazionali e le celebrazioni multiculturali caratterizzano la vita liturgica delle nostre Comunità, in occasioni specifiche (come le settimane interculturali) e nelle feste comuni (come il Corpus Domini, le giornate del Patrono/a della parrocchia, le Pfarrfeste, il Grosses Gebet, le funzioni della settimana santa,…).
Sono momenti tipici di vita con la comunità tedesca, che vanno gestiti assieme, alla pari, nella programmazione (scelta del tema, delle letture, ecc.) come nella realizzazione (non necessariamente il parroco locale deve sempre essere il celebrante principale), dando nei limiti del possibile chiara visibilità alle identità religiose nazionali presenti, anche per sottolineare che l’unica chiesa è fatta ed è arricchita dall’incontro delle diversità. Sono momenti che celebrano e fanno toccare con mano la cattolicità della chiesa, la sua ricchezza di tradizioni e di espressioni. Una curiosità. Prima di chiudere questa parte, ho voluto togliermi una curiosità: sono andato a vedere quanti paragrafi il diritto canonico dedica al culto di Dio.
Includendo tutti i momenti liturgici (dai sacramenti alle altre preghiere) son ben 419. Se vi aggiungiamo quelli dei dicasteri pontifici, quelli delle Conferenze Episcopali e delle Diocesi, il conto diventa quasi impossibile. L’ebraismo ne aveva tanti, ma sempre meno dei nostri. Eppure era questa abbondanza di regolamentazione che scaldava Gesù più di ogni altra cosa. Il formalismo nel culto e la mancanza di rispetto al tempio sono state le due cose che lo hanno fatto arrabbiare fino quasi alla violenza verbale (“razza di vipere”…, tutto il cap. 23 di Matteo) ed a quella fisica (la famosa cacciata dei venditori a frustate, Gv. 2,13- 17).
Se oggi Gesù tornasse, avrebbe gli stessi motivi per arrabbiarsi? 419 paragrafi del Diritto Canonico, più tutte le altre disposizioni emanate dal Vaticano e dalla Diocesi. Le norme ci vogliono, ma guai se prendono il sopravvento. Se concentriamo l’attenzione sulle rubriche e sul rito, ne dedichiamo meno alla sostanza, all’incontro con Dio e con i fratelli. La cosa giusta dovrebbe essere il rovescio. Forse è anche questo uno dei motivi della fuga dai momenti ufficiali di preghiera della Chiesa (troppo regolamentata, “rubricata”, quindi “fredda”) e del flusso ininterrotto nei movimenti (che nei loro riti puntano molto sul contatto e sul rapporto umano).
Ed un interrogativo. È giusto e corretto vedere nella sola celebrazione eucaristica – legata alla presenza del sacerdote – il momento culminante e quasi esaustivo del culto di Dio? Non si rischia in questo modo di restare ancorati ad una Chiesa fondata sul sacerdote (una Chiesa clericale), mentre i carismi sono tanti, e tutti meritevoli di spazio e di apprezzamento? È forse giunto il tempo di sviluppare maggiormente nelle famiglie, nei gruppi, nelle periferie parrocchiali, forme tradizionali e modi nuovi di incontrare e di lodare il Signore, momenti di preghiera comunitaria – in chiesa o fuori – pienamente gestiti dai fedeli.
È una delle maggiori richieste uscite nel dibattito del primo giorno al Forum di Stoccarda. E qui si potrebbe inoltre aprire il grande capitolo della religiosità popolare, particolarmente diffusa nel Sud Italia e con dovizia importata in Germania. Penso alle feste dei vari Santi e della Madonna (con le rispettive novene e processioni all’aperto), alle sacre rappresentazioni della Passione, alle Via Crucis del Venerdì Santo nelle vie delle città, ecc., in genere in mano a comitati di fedeli e da loro gestite.
Rubare la scena allo shopping, riempire di preghiera i templi laici (piazze e strade), far memoria di avvenimenti biblici sfilando davanti agli idoli moderni della moda e del benessere, il tutto sia pure per pochi momenti, sono segni di una fede che viene allo scoperto e provoca almeno alla riflessione. Sicuramente è un contributo tipico della religiosità italiana alla chiesa ed alla società locale. Concludendo questa parte: le nostre liturgie sono spesso povere di rito, ma in genere ricche di umanità, espressione concreta e visibile della fede.