La sentenza parla chiaro: quel segno cristiano è un elemento che rientra a pieno diritto nella cultura europea, anzi è un elemento integrante della sua identità. Mi piacerebbe conoscere questa coppia “originale”, che oltretutto vive nella mia regione, il Veneto, terra di lunga e consolidata tradizione cristiana. Credo che non mi risparmierei una provocazione. Potrei essere d’accordo sull’abolizione del Crocifisso, a condizione però che vengano tolti anche tutti quei “crocifissi” della storia, di cui quell’uomo Crocifisso è emblema e memoria.
Perchè crocifissi sono le vittime delle tante violenze di cui siamo spettatori (passivi?) di ogni genere; sono gli affamati, i rifugiati, i bambini violentati, le donne stuprate; gli uomini e le donne private della loro dignità; gli scampati del terremoto-maremoto del Giappone, e quanti sono costretti a fuggire per scampare al pericolo “radioattività”; le vittime delle tragedie che si consumano tra le pareti domestiche. Quanti crocifissi!
Ebbene, quel Crocifisso, al quale tu hai il diritto di non credere (la fede resta sempre una scelta libera), innocente, fu inchiodato a quel legno. Questo lo dice la storia, non è questione di fede. Ora perchè non potrebbe assurgere a simbolo dell’uomo, che, innocente e indifeso, subisce sofferenze e morte?
Chi ha la fortuna di credere sa che appeso alla croce c’è Dio stesso, Dio fatto uomo, cioè l’Assoluto che ha scelto di essere “il più reietto tra gli uomini, uomo del dolore; come agnello condotto al macello” (sono tutte espressioni bibliche!), cioè ha privilegiato gli ultimi. L’ha fatto e lo fa (è un dato di fede) perché vuole offrire una speranza ad ogni uomo, in qualunque situazione di abbandono e sopraffazione possa venirsi a trovare. La speranza è tutto.
È vivere la certezza che alla fine della strada non c’è il tumore e basta, la violenza subita e basta, il dolore e basta, la fame e basta. Chi crede, sa che c’è un “Oltre” al di là della storia, dove viene ristabilito l’ordine primordiale. Quell’uomo in croce, anzi chiamiamolo con il suo vero nome, Gesù Cristo, è entrato nella storia per non lasciarla così com’è, ma per redimerla. Dio, che ama perdutamente l’uomo, mantiene le promesse. Solidale con l’uomo, soccombe alla morte, ma la vince con la risurrezione. Pasqua è la festa della speranza.
La speranza non è un vago sentimento consolatorio, frutto di pie illusioni. Gesù Cristo non è un morto che ritorna alla vita, per poi soggiacere alla legge biologica della morte; né un fantasma, che apparterrebbe al regno dei morti. Il Risorto è una persona della storia, della quale ha infranto le leggi, entrando in una dimensione assolutamente nuova, la dimensione della vita nella comunione trinitaria, laddove è possibile gustare la pienezza della vita. E non vi entra solo, ma trascinando con sé ogni uomo e tutto l’uomo. “Cristo è venuto e ha fatto risplendere la vita”, scrive Paolo a Timoteo.
Viene anche oggi a dare concretezza alla nostra attesa di vita e di eternità. Da lui viene proiettata una luce fulgidissima sul vivere e sul morire, sul godere e sul soffrire dell’uomo. Questo ha conosciuto e testimoniato una folla immensa di uomini e di donne di ogni tempo. Shahbaz Bhatti, ministro per le minoranze del Pakistan, ucciso qualche settimana fa per il suo impegno per la liberazione di Asia Bibi e per l’abolizione della legge antiblasfemia, aveva scritto poco tempo prima quello che si può considerare come il suo testamento spirituale:
“Voglio che la mia vita e le mie azioni parlino per me e dicano che sto seguendo Gesù Cristo. Tale desiderio è così forte in me, che mi considererei privilegiato, qualora in questo mio sforzo per aiutare i bisognosi, i poveri, i cristiani perseguitati del Pakistan, Gesù volesse accettare il sacrificio della mia vita”.
Così si può lasciare scritto, quando si crede che la Croce, seguita dalla Pasqua, è il vero e unico fondamento della speranza.