Il tema dell’incontro, svoltosi a Soverato lo scorso 29 agosto, ha visto la partecipazione di numerosi e autorevoli personaggi, dal prefetto di Catanzaro, Antonio Reppucci, al presidente del consiglio regionale, Francesco Talarico, all’economista Filippo Bernardino, rettore dell’Università di Sannio e molti altri.
L’argomento trattato potrebbe apparire, a prima vista e solo superficialmente, un’ovvia intuizione, tuttavia, esso ha rappresentato, al contrario, una vera e propria provocazione nel pubblico dibattito fornendo spunti di riflessione e di approfondimento mass-mediatico del tutto inatteso nei contenuti. In premessa, mi sono chiesta perché ero anch’io lì, quella sera? La risposta immediata è stata: l’intima amicizia che mi lega alla famiglia Amoruso. E poi?
Poi l’esigenza primordiale dello stare insieme, di sentirsi parte di una grande famiglia, ovvero dell’appartenenza ad una terra, la Calabria, percepita nell’immaginario collettivo terra ingrata e maledetta.
In un’intervista rilasciata ad una radio locale, ho voluto ricordare il poeta Holderlin, il quale sosteneva che: "L’uomo è costitutivamente colloquio". Credo che quanto più colloquiamo, quanto più si sviluppano migliaia di dialoghi, tanto più avremo regenerato il nostro processo di degrado, di erosione del tessuto culturale e sociale, specialmente nel meridione.
Dobbiamo ritrovare la fiducia, la capacità di progetto, la capacità di dialogo. Corrado Alvaro diceva: "Il calabrese vuole essere parlato". Io direi: "L’uomo deve essere parlato". Noi vogliamo parlare e essere parlati.
Credo che in questo senso occasioni di approfondiemnto sono importanti, non solo per l’aspetto mediatico ma perché, ogni volta che si parla seriamente, avanza, anche se di un millimetro, la nostra consapevolezza critica, la nostra maturità, in tutti i sensi, perché non c’è chi ammaestra e chi è ammaestrato, c’è un’apertura reciproca.
Vorrei ricordare il pensiero del poeta e saggista polacco Milosz: "Si è riusciti a far credere all’uomo che se vive è solo per grazia dei potenti. Pensi dunque a bere il caffè e a dare la caccia alle farfalle: chi ama la Res Publica avrà la mano mozzata". Nel 1980 gli è stato conferito il premio Nobel per la letteratura, con la motivazione: "A chi con voce lungimirante e senza compromessi, ha esposto la condizione dell’uomo in un mondo di duri conflitti".
E continuerei mutuando la dichiarazione del prefetto di Catanzaro, il quale ha detto che: "Res Publica è piuttosto il bene comune, è cosa che ci riguarda, che riguarda tutti noi. E tale responsabilità non si può delegare e non può essere sottratta a nessuno".
Continuerei dicendo che dalla crisi economica non si uscirá se non ripartendo dalla persona, ripartendo da ognuno di noi e la ripresa potrà procedere solo dalla tensione a un bene più grande, che si traduce in una capacità di mobilitazione libera e responsabile, perché una società civile si rigenera dal suo interno, non per elargizione dall’alto.
Partiamo dal presupposto che ognuno di noi ha una visione differente della società e che ogni visione è legittima. Non occorre avere un’identica idea di cosa sia una società perfetta per mettersi d’accordo su quali siano i passi da fare, per migliorare lo status quo.
La scelta è sempre tra soluzioni parziali. Le decisioni devono avere come riferimento una pluralità di idee e di interessi, presentati nella pubblica discussione. La democrazia è dibattito pubblico, dunque il dibattito pubblico è l’essenza della democrazia. Noi umani abbiamo la capacità di ragionare, di elaborare dubbi; siamo in grado di rifiutare l’odio e la rabbia.
Un altro elemento fondamentale per l’essere umano è che la libertà di scelta è conditio sine qua non perché le nostre azioni concrete corrispondano al nostro pensiero e i valori dell’etica, della legalità e della non violenza sono indispensabili per assicurare una convivenza civile e una consapevole partecipazione alla vita democratica.
La provocazione che mi pare di aver colto è stata quella che forse dobbiamo allentare la morsa dell’integrazione globale, ma rifiutiamo di capirlo, perché consideriamo irrinunciabili gli standard di benesseri acquisiti. Ancora non è troppo tardi per capire e agire, perché non possiamo bere il petrolio o mangiare l’asfalto, come è stato affermato da qualcuno e la gente delle città si riverserà nelle campagne alla ricerca di cibo.
E la litania della fuga dei cervelli? La nostra calabresità è anche la nostra formidabile attitudine all’adattamento, perché ci sentiamo, perché siamo cittadini del mondo, risorsa preziosa, capitale umano, che, aldilà della strettoria dei confini che delimitano un dato territorio e al di sopra di ogni luogo comune, siamo un bene inestimabile e insostituibile, in un villaggio globale sì, ma nel rispetto imprescindibile delle nostre identità culturali.