Secondo Eurostat, tra il 2005 e il 2010 l’Europa a 27 ha perso quasi un milione di persone l’anno. Il crollo è sostanziale, se si considera che sette anni fa il saldo migratorio netto era ottimale e il Vecchio Continente guadagnava ogni dodici mesi un milione e 800 mila individui. Invece, nel 2010, il saldo positivo si è ridotto ad appena 850 mila persone e i dati illustrano un trend negativo costante, che proseguirà anche nei prossimi anni.
Per questo, almeno in Italia, un giorno non troppo lontano cominceremo a rimpiangere l’immigrazione: come ha sentenziato l’Istat, se si interrompessero nettamente gli arrivi degli stranieri, nel 2065 la popolazione sarebbe dimezzata rispetto ad oggi e conterebbe appena 31 milioni di individui. Ma non è solo un problema nostrano: secondo Jeffrey Williamson, il maggiore storico economico dell’immigrazione, tra il 2020 e il 2030 i flussi di lavoratori dai Paesi poveri verso l’Occidente cominceranno gradualmente a ridursi, fino a scomparire entro il 2050. In pratica, se il trend del declino demografico continuasse sulla linea degli ultimi tre anni, già nel 2016 l’Europa a 27 potrebbe trovarsi con un saldo migratorio negativo.
Il punto è che non sono diminuiti tanto gli stranieri che arrivano, ma cresciuti coloro che se ne vanno. Infatti, sono molti gli extracomunitari partiti un tempo da Paesi poveri per cercare fortuna che oggi tornano a casa, in nazioni diventate locomotive dell’economia mondiale: non solo la Cina, ma anche il Cile, il Brasile, il Messico o l’Angola. Un cambio di passo inatteso, avvenuto in poco meno di dieci anni. Tuttavia, il differenziale migratorio negativo è dato soprattutto dal fatto che la stragrande maggioranza dei nuovi emigranti europei è indigena e cittadina dei Paesi in crisi: Spagna, Portogallo, Irlanda, Grecia e anche Italia.
Sono ragazzi tra i 20 e i 35 anni, quasi tutti laureati e celibi: non si tratta dei braccianti costretti dalla fame nel secolo scorso, ma di una buona fetta della futura classe dirigente. Non è difficile intuire la motivazione di questa diaspora: la disoccupazione giovanile è esplosa. Basti pensare che negli ultimi sei anni in Spagna è raddoppiata, in Irlanda è cresciuta addirittura del 200 per cento, mentre in Grecia e Portogallo è aumentata di quasi un quarto: per quanto riguarda questi ultimi due Paesi poi, le prospettive occupazionali sono le più drammatiche a livello continentale. Mentre in Italia si contano oltre un milione di giovani disoccupati (il tasso di dicembre è del 31%) e due milioni di Neet (che, cioè, non lavorano né studiano né fanno formazione professionale).
Il quadro continentale che ne emerge è devastante: troppo concentrato sul presente dei suoi pensionati, il Vecchio Continente non sembra capace o realmente interessato a progettare un futuro per i propri figli. In varietate concordia ( «Unità nelle diversità»), che è il motto dell’Unione europea, oggi assume significati sinistri dopo che autorevoli quotidiani stranieri – specialmente anglosassoni – hanno malignamente indicato il disastro dell’isola del Giglio come metafora del futuro economico della Ue.
Di vero rimane che anche in questo caso i giovani europei stanno abbandonando la nave e gli alti ufficiali politici non sembrano curarsene troppo. Dove vanno? Principalmente nelle Americhe, in Oceania o a volte in altri Paesi europei più ricchi come quelli scandinavi o la Germania. Perché le nazioni continentali che non sono al centro della crisi offrono prospettive più allettanti rispetto alle nazioni mediterranee. Si consideri ad esempio la previsione di guadagno per un giovane studente europeo dopo la laurea: in Italia e Spagna è di 25mila euro lordi l’anno, mentre in Francia è di circa 40mila, in Germania di 50mila e in Svizzera supera i 60mila euro.
Ma la ‚generazione Erasmus‘, fatta di ragazzi pronti a viaggiare, sogna continenti lontani. Gli spagnoli, ad esempio: il 60% dei 130mila ragazzi che sono partiti nell’ultimo anno ha scelto le nazioni sudamericane, soprattutto Cile, Colombia e Messico. La Spagna è già caduta nel baratro della decrescita demografica, dove l’emigrazione supera l’immigrazione. Secondo l’Istituto Nacional de Estatistica, nei primi sei mesi del 2011 il Paese ha perso 27mila persone: da 46 milioni e 152mila abitanti a 46 milioni e 125mila. Va un po’ meglio nell’altro lato della penisola iberica. Anche in Portogallo il saldo migratorio è crollato tra il 2005 e il 2010: da 38mila persone a quasi 4mila, in pratica il 90% in meno di nuovi cittadini ogni anno. E oggi, tre portoghesi su dieci sono disposti ad emigrare per lavoro: la metà ha tra i 18 e i 30 anni ed è laureato o diplomato.
I giovani greci scelgono invece la Scandinavia e l’Europa occidentale come mete migratorie interne e l’Australia come destinazione extraeuropea. Così negli ultimi sei anni la Grecia è passata da 40mila nuovi abitanti ad appena 15mila del 2010. Ma il record continentale della diaspora giovanile spetta all’Irlanda. Secondo Eurostat, il tasso migratorio irlandese è il più alto in Europa: su mille persone, nove lasciano Dublino e si spostano principalmente verso gli Stati Uniti, il Canada, l’Australia e la Nuova Zelanda. E da due anni l’emigrazione supera l’immigrazione.
In Italia, invece, anche se il saldo migratorio è ancora positivo, il trend rimane comunque notevole: nonostante la grande affluenza di immigrati africani, dal 2007 a oggi si è passati da 500mila abitanti in più ogni anno ad appena 311mila. Sono principalmente i nostri giovani connazionali a scappare, proprio come recita la canzone del rapper Caparezza «Goodbye Malinconia », che descrive il nuovo fenomeno migratorio dei ragazzi italiani: «… e poi se ne vanno tutti, non te ne accorgi ma da qua se ne vanno tutti».