Elaboro qui riflessioni fatte altrove. Con un’amica, per esempio, ricordavo di aver letto alcuni anni fa, in Germania ed in tedesco, un libro sui bambini ebrei affidati a famiglie estranee per salvarsi: erano testimonianze di madri o degli stessi bimbi poi effettivamente sopravvissuti alla guerra. Non so come si intitolava quel libro o come/se è stato tradotto in Italiano. Lessi di bimbi che a 4/5 anni dovevano imparare nel giro di cinque minuti a chiamarsi con un nome diverso, chiamare "mamma" o "papà" persone che non conoscevano e dimenticarsi le loro radici, il passato. Erano stati i loro stessi genitori ad averlo espressamente tentato di spiegare pochi momenti prima: era questione di vita o di morte… Che parola rappresenta la parola “morte” ad un bambino di quella età, se non il ricordo indelebile della perdita del suo mondo e del viso dei suoi genitori?
Per me quello fu un libro terribile, credo uno di quelli, se non quello, che più ha segnato la mia coscienza di persona umana portatrice, come molti, di ricordi di esperienze non facili: di fronte al racconto di queste esperienze, io mi sono resa conto davvero di essere piccola e, nonostante tutto, fortunata.
Ricordo una frase di una delle tante mamme ebree o di una salvatrice che le aveva ascoltate: si diceva che quella madre, alla domanda: "Cosa vorresti lasciare a tuo figlio?" avesse risposto: "Vorrei lasciargli i miei ricordi….". Si stava separando per sempre dal suo bambino. Non lo dimenticherò mai. Questa frase ha segnato tutta la mia esperienza di madre singola e senza appoggi: ho preso coscienza della paura che la vita mi strappasse a mio figlio prima che lui potesse raggiungere l’età per ricordarsi per sempre di me; con la sua crescita, ho poi imparato a liberarmi da questa paura. Io vorrei dedicare queste parole a quelle mamme che sono davvero sole di fronte alla morte o alla sola paura della morte, ed alla vergogna di chi ne parla senza aver mai provato a conoscere con umiltà la condizione difficile di chi è in certe situazioni, convinto di esprimere una conoscenza “scientifica” attaccandosi a qualche testo accademico.
In molti di questi testi scientifici, la vita di un uomo diventa parte del numero di una percentuale statistica. In questi giorni si celebra la memoria di un dolore che ha avuto un’altra esperienza con la passione dei numeri. Vorrei umilmente ricordare quanto la scienza debba piegare la testa, dal momento che, senza scienza, tra l’altro, a certi risultati numerici non sarebbe arrivata neppure l’ossessione di Hitler.
E voglio dedicare queste parole anche a quei figli e quelle figlie che hanno davvero conosciuto il dolore della solitudine, dell’abbandono, dell’abuso, che è il dolore di un tradimento che mai si potrà dimenticare, ma che non è detto dall’inizio che diverrà per forza il segno della caduta o della ripresa del controllo della propria esistenza. Mi spiace enormemente leggere approssimazioni e generalizzazioni anche su questo tipo di esperienze che rischiano di ferire con la stigmatizzazione chi è già ferito.
Non è scritto da nessuna parte, neuroni inclusi, che un’esperienza traumatica non possa diventare la fonte vitale di un insegnamento di vita valido anche per gli altri. Ho nominato sopra il filosofo stoico Epitteto: uno schiavo poi liberato pare anche fisicamente colpito da una disabilità. Che Epitteto abbia vissuto la sua schiavitù come esperienza fondamentale è chiaro; potremmo anche affermare che quella fu un’esperienza traumatica, se intendiamo per “traumatico” qualcosa che rimane indelebilmente iscritto nell’anima, nella memoria o nel cervello, che dir si voglia; a livello emotivo, psicologico o anche neurologico, che dir si voglia… tutti gli umani hanno limiti… Ma è detto davvero che un’esperienza possa decidere a priori quale sarà il limite della nostra capacità di rielaborarla? Cosa è, allora, il “libero arbitrio” di un uomo? Non certo essere “libero” nel senso del non avere regole: ed è proprio Epitteto, l’ex schiavo, il disabile, il filosofo rappresentante di quella corrente affascinante del determinismo stoico, che ce lo ricorda, attribuendo la vera libertà di un uomo alla sua libertà di pensiero e di coscienza: nessuno, diceva Epitteto, sarà mai padrone del tuo pensiero, se non lo vorrai…
Un’altra citazione che vorrei fare qui per parlare a mio modo del dolore riguarda Primo Levi, indicando un link su YouTube che mi è stato segnalato su Facebook – che continuo ad usare trovando validissimi spunti di scambio e riflessione di cui si alimentano tanti miei articoli e di questo ringrazio i miei amici. Condivido anche qui: http://www.youtube.com/watch?v=1tffs51lj14 . Le parole di Primo Levi si commentano da sole, non aggiungerò nulla a parte il precisare che l’elenco dei vari “fascismi” da lui nominato mi sembra spontaneo e non intenzionalmente inteso ad escludere quelli di colore apparentemente diverso (sovietici, cinesi e via dicendo – un doveroso appunto che devo a qualcuno su FB).
Io vorrei focalizzare il mio discorso su quello sguardo profondo e senza sorriso che nel video quest’uomo mostra di avere. Si potrebbe parlare di uno sguardo limpido, puro, triste… ma non è il cercare il giusto aggettivo che mi preme. Io qui vorrei ricordare che quando ascoltiamo qualcuno portatore di un’esperienza potente spesso rimaniamo colpiti dalle sue parole, dalla sua persona, fino al punto di rischiare di mitizzarla, di idealizzarla, condannando un’altra volta ad una nuova forma di “emarginazione” chi si distingue dal resto del mondo umano per essere stato toccato e segnato per sempre dal dolore: anche mettere un essere umano sul piedistallo, separandolo dal resto dell’umanità, separa ed emargina, infatti.
Tanti anni fa conobbi una ragazza dell’allora Yugoslavia. Suo padre era stato prigioniero dei lager nazisti. Lei di suo padre ricordava un’altra realtà, e non la forza ed il coraggio che ovviamente lui, sopravvissuto in condizioni terribili, pur aveva: di quante volte, nel pieno della notte, suo padre fosse preso da incubi che lo facevano urlare in modo spaventoso.
Il dolore mi sembra avere almeno due aspetti: uno, quello più luminoso, che ci permette semmai di diventare artisti, scrittori, pensatori, scienziati, saggi, tolleranti o, semplicemente, porto accogliente di chi cerca aiuto. Dietro tutto questo, come dietro la luna che a noi si mostra, vi è il lato d’ombra, che non è solo quello di cui parla Jung, ma, molto più banalmente, quello della vita di tutti i giorni, di un quotidiano in cui anche chi è segnato da un dolore davvero grande, pur sapendo parlare, scrivere, pensare e/o creare, diventa pesante per chi gli vive attorno e vicino. E’ questa faccia “buia” dell’esperienza del dolore ciò che quotidianamente ricorda a chi l’ha vissuta che il dolore c’è stato, che ti ha condizionato tutta intera la vita, che non potrai mai negarlo o dimenticarlo anche quando agli altri risulti ripetitivo, perché il dolore ti ha reso diverso da loro. Per sempre. Bisognerebbe non scordarsi che c’è anche questo buio in chi ci parla di un’esperienza di fronte alla quale rimaniamo senza parole, non aspettarsi mai che un grande uomo o una grande donna siano sempre grandi nello stesso modo.
Leggere la storia di chi ha dovuto lasciare tutto ed è sopravvissuto capendo che il suo "tutto" non era nelle cose… ecco, quegli spunti di biografia mi hanno segnata, perché sono sempre stati per me una pietra indimenticabile di paragone per ricordarmi che c’è di peggio, al mondo, di quello che può capitare, o è capitato, a me. Ieri ho letto un articolo in cui si esorta la gente a non leggere libri… Io non so quali libri abbia letto chi lo ha scritto. Io devo moltissimo ai libri ed all’istruzione: senza libri, io non avrei ricevuto orientamento, esempi morali, educazione, idee e ideali. E’ per l’amore dei libri e solo per quello che sono (anche) un’educatrice didattica: è il “grazie” più bello che devo a chi mi ha preceduta passare “oltre”, a chi viene dopo di me, la lezione che mi ha regalato … mettendoci, chissà, quel poco di mio che rimarrà la piccola traccia nascosta del mio modesto passaggio.
Non è però sempre vero, purtroppo, che il dolore apra la porta a creatività, sensibilità, tolleranza eccetera; così come può darsi che non sia obbligatorio per un essere umano essere segnato da un dolore personale e profondo per imparare a mantenersi aperto verso gli altri: credo che un’esperienza diretta, di qualunque genere ma profondamente elaborata, possa dare potenti opportunità di crescita e riflessione sull’umano ed i suoi limiti. Bisogna però e chiaramente ricordandoci di non essere gli unici al mondo a portare/aver portato fardelli, ed evitare di dare materiale a chi, strumentalizzando il dolore altrui, si fa grande formulando leggi universali sul comportamento umano e riducendolo a “numero”. Il rispetto per la dignità umana e per il suo dolore è anche questo. Io credo. Quindi farò il mio piccolo per insistere che la scuola sia fatta anche di materie umanistiche, perché sono queste materie a permettere ai non toccati dal dolore di conoscerlo, ed ai toccati di riconoscerlo e di non sentirsi troppo soli.
Però io credo anche che il dolore non possa giustificare l’infinita pretesa di essere in credito con il mondo intero, e credo che chi si è visto strappare i figli, la casa, la possibilità di una vita normale non possa avere il diritto di fare lo stesso a nessun altro. Né noi, che ci mostriamo tanto capaci di sensibilità verso il dolore di una storia che non ci ha coinvolti, possiamo permetterci di chiudere gli occhi e girare la faccia di fronte al dolore di chi soffre oggi semmai dietro l’angolo della nostra casa o della nostra piccola storia. Per questo voglio ricordare la Giornata della Memoria così, con questo articolo: perché sia simbolo di tante altre atrocità passate o recenti. Riuscissimo a sentirci felici di quel poco di più che avremmo comunque rispetto ai prigionieri dei tanti lager del mondo, non saremmo mai stati complici di queste tragedie.