Può uno Stato dichiarare guerra senza vincoli e liberamente a qualsiasi altro Stato? E può un presidente di uno Stato minacciare senza usare minimi termini altri Stati via Twitter? La risposta a queste domande apparentemente semplici è contenuta nelle norme convenzionali applicabili: in particolare bisogna considerare il contenuto e la portata del divieto sancito nella Carta delle Nazioni Unite e l’impatto sulla corrispondente norma consuetudinaria.

Mentre il diritto internazionale anteriore al 20mo secolo non poneva limiti giuridici significativi all’uso della forza armata da parte degli Stati ed era ampiamente ammesso in tempo di pace il ricorso da parte degli Stati, agli inizi del Novecento si registrano i primi tentativi tesi a limitare il ricorso degli Stati a misure militari in contesti extra-bellici (v. ad es. la Convenzione dell’Aja del 18 ottobre 1907 riguardante la limitazione dell’impiego della forza per il recupero dei debiti contrattuali, in AJIL, Supplement, 1908, 81-85) o a circoscrivere e limitare il diritto degli Stati di ricorrere alla guerra (v. il Patto della Società delle Nazioni del 28 aprile 1919 e il Patto generale di rinuncia alla guerra del 27 agosto 1928). Ma solo a seguito del secondo conflitto mondiale un divieto generalizzato di ricorso alla forza nei rapporti tra Stati è sancito a livello convenzionale con la Carta delle Nazioni Unite (“Carta ONU”, in particolare art. 2, § 4). Nella Carta ONU, tale divieto generale di uso della forza è collegato al sistema centralizzato di sicurezza collettiva facente capo al Consiglio di sicurezza (CdS). L’esistenza del legame è confermata dal fatto che le uniche eccezioni al divieto sono integrate, da un lato, dalle misure coercitive autorizzate dal CdS ai sensi del Capitolo VII della Carta per mantenere o ristabilire la pace internazionale e dall’altro, dal riconoscimento, in capo allo Stato vittima di un attacco armato, del diritto naturale di legittima difesa, a sua volta però destinato a cessare non appena il CdS abbia adottato efficaci misure per il ristabilimento della pace.

Il divieto ha acquisito altresì natura consuetudinaria e portata generale: la Corte internazionale di giustizia (CIG), nella sentenza sulle Attività militari e paramilitari in Nicaragua e contro il Nicaragua del giugno 1986, ha riconosciuto l’effetto “trascinante” della Carta e delle successive risoluzioni dell’Assemblea generale sul consolidamento di una norma consuetudinaria proibitiva dell’uso della forza.

Secondo l’art. 2, § 4, della Carta ONU, gli Stati membri «devono astenersi nelle loro relazioni internazionali dalla minaccia o dall’uso della forza, sia contro l’integrità o l’indipendenza politica di qualsiasi Stato, sia in qualunque altra maniera incompatibile con i fini delle Nazioni Unite». La formula si presta nel complesso a esprimere una nozione stringente del divieto di uso della forza, ma lascia spazio ad alcuni dubbi interpretativi.

Va, inoltre, ricordato che la proibizione espressa all’art. 2, § 4, della Carta ONU non si limita all’uso attuale della forza, ma si estende altresì alla “minaccia”: la CIG ha affermato la simmetria esistente tra le nozioni di “uso” e di “minaccia di uso” della forza presenti nell’art. 2, § 4, della Carta ONU, nel senso che se in un caso specifico un dato utilizzo della forza armata è illecito, illecita ne sarebbe pure la minaccia. Vale a dire: se il presidente statunitense Donald Trump continua imperterrito a minacciare Stati indipendenti e riconosciuti dalle Nazioni Unite come l’Iran, questo atto costituisce una netta violazione della Carta ONU. Difatti, l’art. 2, § 4, della Carta ONU prevede che l’uso della forza sia vietato quando questa sia rivolta «contro l’integrità o l’indipendenza politica di qualsiasi Stato».

Risulta, dunque, molto discutibile l’autonomia concettuale di pretese eccezioni volte a legittimare interventi armati per combattere il terrorismo o impedire la proliferazione e l’uso di armi di distruzione di massa. Solo quando non risultino altrimenti illecite perché corrispondenti a contromisure armate proibite dal diritto internazionale (v. ad esempio i raid missilistici effettuati dagli Stati Uniti contro il Sudan e l’Afghanistan nell’agosto del 1998, adottati in reazione agli attentati dinamitardi alle ambasciate statunitensi in Kenya e Tanzania), simili azioni andrebbero riferite alla categoria generale della legittima difesa e la loro liceità dovrebbe essere valutata alla luce di tutte le condizioni e i limiti che sono propri di tale figura.

Altrimenti possiamo constatarne la piena illeggittimità dell’azione o della minaccia stessa.

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