La visita ufficiale di Erdoğan in Germania l’ultima settimana di settembre ha toccato molte ferite aperte che riguardano il rapporto turco-tedesco. In questo articolo vogliamo mattere il dito su una piaga incancrenita d’importanza più internazionale: il genocidio contro gli Armeni che è stato il prototipo di tutti i genocidi susseguitisi nel XX secolo: tanto che Hitler lo prese a modello al momento di attaccare la Polonia. Sta di fatto che fino al 1915 vivevano nella Turchia circa 2 milioni di Armeni su una popolazione totale di 20 milioni di sudditi del gran Sultano. Dopo quell’anno fatale gli Armeni si trovarono bruscamente ridotti a meno di 50mila. Dove son finiti tutti gli altri? Tutti rapiti sui dischi volanti? A sentire le versioni ufficiali turche verrebbe da pensarlo. „È assolutamente inaccettabile. Non lo accetteremo mai!“ ha tuonato ripetutamente Erdoğan in tono minaccioso contro coloro che avessero osato chiamare „pane“ il pane e „vino“ il vino. Il Bundestag tedesco ha osato, ed in una risoluzione quasi all’unanimità del giugno 2016 ha qualificato come „genocidio“ il genocidio degli armeni. Le ritorsioni turche sono state immediate, ed ai deputati tedeschi è stato vietato l’accesso in Turchia anche se erano in visita d’ufficio ai militari tedeschi.

L’ostinazione con cui i turchi negano l’evidenza dei fatti somigliano un po’ a quella con cui i comunisti d’un tempo negavano i delitti di Stalin. E le testimonianze sull’olocausto degli armeni non mancano certo, e sono conservate in gran parte negli archivi diplomatici di Francia, Inghilterra, Stati Uniti d’America, Danimarca, Svezia, e soprattutto della Germania. Pur lasciando da parte i primi due paesi che in quell’anno erano in guerra con la Turchia, e quindi potrebbero sollevare il dubbio di calunnia bellica contro il nemico, gli altri paesi erano neutrali e la Germania era addirittura alleata. Per questo la Turchia dell’epoca era percorsa da innumerevoli consulenti militari, soldati, giuristi, ingegneri, medici, infermieri, geologi, insegnanti, religiosi, ecc. tutti provenienti dalla Germania, che ci hanno lasciato testimonianze indipendenti fra di loro ma coincidenti nella descrizione dei fatti raccapriccianti. Si tratta di testimonianze spontanee ed indesiderate, che le autorità del Reich hanno fatto di tutto per ignorare onde evitare grane con il governo alleato. E che coincidono pure con quelle conservate negli archivi degli altri paesi. Ma il governo turco aveva scelto il momento più opportuno per agire in maniera rapida e radicale, mentre l’opinione pubblica europea era distratta dagli eventi bellici sul fronte occidentale. Un testimone particolarmente importante è stato il soldato tedesco Armin T. Wegner, ufficiale sanitario e fotografo dilettante, le cui immagini scattate di nascosto (era vietatissimo!) testimoniano inequivocabilmente le dimensioni dell’orrore, e chiunque può ammirarle su internet alla faccia delle autorità turche.

Rientrato in patria, Wegner nel 1919 descrisse in una lettera al presidente degli Stati Uniti in tanti particolari le scene a cui aveva assitito con i suoi occhi: „I bambini piangevano fino a morire, gli uomini si sfracellavano sulle rupi, le donne gettavano i loro piccoli nei pozzi, quelle incinte si buttavano cantando nell’Eufrate… „ e gli uomini sono stati „macellati a schiera, gettati nel fiume legati assieme con corde e catene, rotolati giù dai monti con gli arti legati…“ ecc. ecc. Alma Johannson, suora missionaria svedese, dichiara di aver visto die bambini con i chiodi battuti nei piedi come cavalli, con unghie e denti strappati ed appesi per i piedi. Beatrice Roher, missionaria svizzera, descrive „lo stato delle donne deportate era al dilà di ogni descrizione. Mangiavano l’erba dei prati, dove ci fosse la carogna d’un cammello o altre bestie in decomposizione vi si gettavano a divorarla come se fosse una prelibatezza“. La danese Karen Jeppe descrive il vialone fuori delle mura di Urfa fiancheggiato da cadaveri umani in diversi stati di decomposizione al posto degli alberi. „L’intera provincia è un obitorio“ annuncia Leslie A. Davis console americano ad Harput. Un altro testimone di spicco è il teologo tedesco Johannes Lepsius, cofondatore della Missione Tedesca in Oriente, che tentò invano di dissuadere il ministro turco della difesa, Enver Pascià, dal realizzare i suoi piani criminali. Quando l’ambasciatore americano Morgentau si lamentò con il ministro Talat Pascià del destino di donne e bambini innocenti, costui, invece di sbottare alla maniera di Erdoğan che erano tutte bugie e infami calunnie, gli rispose cinicamente che „queste cose non si possono evitare“. Gli armeni sono un popolo antichissimo, e sono insediati da almeno 2 millenni e mezzo nel remoto territorio a sud del Caucaso, fra il Mar Nero ed il Mar Caspio, con al centro il biblico Monte Ararat. I turchi vi sono arrivati molto più tardi e li hanno inclusi nel loro Impero Ottomano.

Ma gli armeni, a differenza di altri, sono rimasti ostinatamente cristiani, anzi si vantano di essere il popolo cristiano più antico del mondo, avendo adottato il Cristianesimo come fede di stato prima ancora dell’editto di Teodosio. Si trovarono così a rappresentare un’isola cristiana circondata da un mare di musulmani. Sarebbe meglio dire un arcipelago, dato che erano sparsi su ben sei province dove formavano una élite professionale invidiata dai turchi più poveri. Un profilo architettonico tutto particolare hanno le loro chiese, alcune delle quali sono rimaste conservate pure in territorio turco, particolarmente nella zona fra il grande Lago Van ed il confine con l’attuale Armenia. Al tragico destino del popolo armeno è dedicato uno dei più bei film dei fratelli Taviani, la masseria delle allodole (2007) tratto dall’omonimo romanzo di Anna Arslan. Un film degno di rappresentare la memoria di Vittorio Taviani, spentosi pochi mesi fa all’età di 88 anni. Uno solo film purtroppo, se si pensa quanti ne sono stati dedicati all’olocausto degli ebrei o allo sterminio dei pellirossa americani. Occorre però citare un altra opera di letteratura, il poderoso romanzo dello scrittore austriaco Franz Werfel intitolato I quaranta giorni di Mussa Dagh nella vecchia traduzione italiana (Die vierzig Tage der Musa Dagh / 1933) che si ispira ad un episodio realmente avvenuto ed assai significativo: chi si difende può salvarsi.

Il „Monte di Mosé“ o Musa Daği in turco, è un montagnone selvaggio che domina la riva del Mediterraneo fra Antiochia ed Alessandretta. Sul suo fianco orientale c’è una valle che un tempo ospitava una prospera e pacifica comunità armena: contadini, artigiani, commercianti, ecc. Quando costoro si rendono conto del pericolo che li minaccia, abbandonano in massa le loro case per rifugiarsi sulla cima del monte da cui respingono eroicamente per quaranta giorni gli attacchi sempre più furiosi dell’esercito turco, che non si aspettava tanto valore da combattenti improvvisati. Il quarantunesimo giorno vengono tratti in salvo da una flotta militare francese. Giuliano Taviani, figlio di Vittorio, in una chiacchierata telefonica con l’autore di questo articolo, ha raccontato come per realizzare la masseria delle allodole abbia fatto diversi viaggi informativi a Jeravan, l’attuale capitale dell’Armenia. E di esser stato colpito particolarmente da due caratteristiche della gente: la povertà economica e la ricchezza culturale.

„Incredibile quanto sono colti gli armeni“ ha detto ammirato. Ma i veneziani lo sapevano già da secoli: in una delle più belle isole della laguna s’innalza il convento di San Lazzaro degli Armeni che ospita fra l’altro un museo della civiltà armena, una pinacoteca ed una magnifica biblioteca.

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