Nella foto: Ennio Flaiano. Foto ©Wikipedia

Come essere polemici ma fedeli alla tradizione

Esaminare le analogie e le differenze tra il viennese Kraus e il romano Flaiano è opera molto ardua, tale è il volume di fuoco che questi autori contemporanei hanno esploso contro le contraddizioni dalle società. Il viennese, per esempio, fu per formazione giornalistica quasi un filosofo dialettico e fustigatore dei canoni delle società dl primo novecento. Non disdegnò di partecipare a tutte le espressioni critiche della vita quotidiana nella società consumistica, atea e godereccia di quella capitale, ridotta dal 1919 a una testa su un corpo mutilato, come ebbe a dire sul suo famosissimo periodico, La fiaccola, ben visibile sotto la maschera che ipocritamente pose sul volto della Nike imperiale. Gli obiettivi della polemica all’inizio del ‘900 furono subito i proprietari dei giornali conservatori della borghesia dominante, che pretendeva di guidare con un certo successo l’opinione pubblica. Il suo nemico fu il liberismo borghese, corrotto e autoritario, combattuto con l’arma della satira. Ma sparò a zero contro tutti gli altri, dai cattolici ai democratici, perfino contro i socialisti. La sua contraddizione era anche la sua forza perché nonostante tutto credeva nella libertà di stampa. Nostalgico era di Swift, che nell’Inghilterra imperiale del ‘700 aveva fustigato la borghesia territoriale agraria dietro le righe dell’apologo insuperabile che furono I viaggi di Gulliver.

Tifoso pure di Voltaire, astioso contro Marx, censore di ogni forma di doppiezza, disprezzava i politici avversari in Parlamento e amici la sera a cena e nella case di appuntamento. Scherzava anche sulla sua natura di ebreo, che disegnava con il naso adunco, in camicia sbottonata, con la testa a pera e la pancia prominente. Rideva amaramente dei nomi ebraici che il sindaco antisemita Lueger bollava sulla stampa di regime, svelando la radice ebraica dei nomi dei presunti ariani. La logica dei contrari, appresa dal contemporaneo Wilde, lo rendeva un internazionalista anticipatore, salvo poi a fare marcia indietro a favore del nazionalismo quando evidenziava i difetti degli slavi ad est e dei francesi ad ovest. A chi gli opponeva di amare i contrasti e di svalutare la sintesi, ribatteva che la capacità di mediazione era una virtù politica prossima alla corruzione.

Unica sua prospettiva ricostruttrice fu al prospettiva apocalittica del mondo dopo la Grande Guerra. Dal 1899 – anno di nascita del suo giornale – fino al 1936 denunciò tutti i vizi privati che generavano le pubbliche virtù ma anche si pose a fare parodie, cantando in falsetto opere di Wagner e Verdi, recitando in forma scenica tutte le arti delle commedie di Shakespeare, Ibsen e anche Pirandello, che amava più di tutti. Dal bersaglio storico al personaggio di invenzione: per esempio rappresentò la storia di Colombo e le sue ambiguità, da cui il nostro Dario Fo ha preso certamente molte gags, divenendo nondimeno il suo mentore insieme al grande Paolo Poli. Del pari, adattò al mondo moderno i miti di Prometeo e di Pandora, l’uno come esempio della superbia dell’uomo, l’altra come modello delle donne che per pochi marchi si davano ai pescecani di turno. Una altro caso che rappresentò dal vivo in varie tournée – accompagnandosi personalmente al pianoforte – fu quello del Titanic, ricordato pochi minuti prima della tragedia finale. Oppure il carnevale di Colonia nel caso della crisi della Repubblica di Weimar; la quaresima di Siviglia quando descrisse i funerali di Francesco Giuseppe; oppure i balli al Savoy di Londra, che paragonò ai tragici giorni dell’agosto 1914, quando si assistette sbigottiti al valzer delle dichiarazioni di guerra delle potenze europee.

Sembrava la resurrezione di un millenarista alla Gioacchino da Fiore. In uno dei suoi tanti saggi di rottura sociale, Morale e criminalità del 1902, rivelò al pubblico il problema sessuale e la realtà della liberazione della donna, difendendo l’aborto e il divorzio.

Lottò altresì per l’abolizione del delitto di omosessualità e di quello di prostituzione. Negava la libertà falsa e ipocrita della donna cui riconosceva il diritto di voto e la libertà economica. Nondimeno, satiricamente disegnava la donna demoniaca che scopriva nella Salome di Strauss e nella Lulù di Wedekind. L’accusa che gli lanciò però Freud fu quella di ambiguità assoluta quando discuteva apertamente di sessualità e allo stesso tempo respingeva la soluzione del sesso come movente dell’azione umana. Forse qui cadeva la sua filosofia: dotato di profonda immaginazione artistica, eccedeva in forme a sua volta di psicopatia nostalgica del passato nel vedere nero il futuro. Su Hitler non volle esprimere giudizi, perché diceva che su quell’imbianchino non li veniva niente in mente, malgrado la sua fortissima verve sarcastica.

Di lui, però pensiamo che resti sempre viva la sua sua mole di scritti sul linguaggio. Amato perciò dal grande filosofo Wittgenstein per la purezza della parola e per avere conservato tutti i profondi significati della lingua tedesca. Fu proprio un suo collega del mondo della satira che lo giudicò un fermo innovatore delle apparenze, benché fu piuttosto conservatore della lingua e un purista della tradizione protestante e giudaica, malgrado la superficiale adesione alla religione cattolica.

Chi lo ritenne così fu il nostro Ennio Flaiano, l’italiano polemista più acuto del ‘900. nato a Pescara in una famiglia piccola borghese molto numerosa, arrivò a Roma nel 1922 sullo stesso treno di parecchi fascisti che marciavano sulla Capitale, circostanza che gli fu utile per presentarsi al pubblico come narratore di un viaggio così particolare. Nelle riviste dell’epoca scrisse recensioni di libri e film. Conobbe A. G. Bagaglia e Pannunzio, fino ad entrare alla corte di Longanesi che da lui fu presto impressionato. Guerra in Etiopia e caffè romani lo vedono presente come corrispondente su Oggi e Quadrivio.

Recensore critico e letterario di teatro fu spesso critico del Regime. Dal 1943 si dedicò del tutto al cinema come sceneggiatore, non mancando di scrivere su Mercurio, la rivista di costume di una donna di grande cultura, Alba De Cespedes, il cui salotto era frequentato da Palazzeschi, Carlo Levi, Brancati, Rota e Cardarelli. Dagli anni ‘40 agli anni ‘60, vinse premi letterari e sceneggiò film di costume di grande impegno sociale, per esempio La dolce vita e 8 1/2 di Fellini, senza contare Signori e Signore di Germi, i maggiori capolavori di satira sociale del cinema italiano. Rappresentò una sua interessantissima commedia, La conversazione continuamente interrotta nel 1972, dopo altre commedie i cui titoli sono già un epigramma immortale: La guerra spiegata ai poveri (1946); La donna nell’armadio (1957); Un marziano a Roma (1960).

I romanzi non furono da meno: Tempo di uccidere (1947), Il gioco al massacro (1970), La solitudine del satiro (1973); Lo spettatore addormentato (1966); Cristo torna sulla terra (2000, postumo); L’occhiale indiscreto (raccolta di articoli apparsi sul Mondo e sul Corriere della sera, 1995, altrettanto postumo). Morì in piena forma creativa mentre era in contatto con George Cukor, Louis Malle e Miloš Forman, sicuramente più capito all’estero che in Italia. Il suo pensiero è condensato nell’opera più sintetica mai scritta sulle relazioni umane. Era un dialoghetto filosofico: Verrà al mio cocktail? Certo, certissimo, anzi probabile! E sul genio disse: il peggio che può capitare al genio è di essere compreso! E l’uomo ha una tale sfiducia nel futuro che fa i suoi progetti per il passato.

Ma è sulla fine della vita che si fa più acido, come il suo sodale Kraus, quando per passare inosservato in società fulmina una intera classe impiegatizia dedita all’onestà, disse nel 1969: Basta alzarsi ogni mattino alle sette e uscire per capire che abbiamo sbagliato tutto! Sull’amore, proruppe: forse ti amerò col tempo, magari conoscendoci peggio. E anche quando stigmatizzò il popolo italiano: l’inferno che l’italiano vive, va immaginato come quel luogo dove bene o male sta con le donne nude e dove con i diavoli si mette d’accordo. Sulla religione è più caustico che non si può: la religione è finita perché non c’è più nessuno che si vanti di aver portato a letto una suora. E sulle avanguardie, neppure amate da Kraus, affermò: le arti moderne si trovano spesso ad essere superate dal grosso dell’esercito. In politica sferzò i partiti di sinistra specie se governativi.

Durante il centrosinistra, quando scoppiò nel 1966 la prima crisi economica dell’età del boom, dichiarò, non senza dolore, che la situazione era grave, ma non era seria. E questo pensiero oggi appare alquanto attuale. Nel momento in cui cui si invocò l’avvento dei comunisti era il 1969, intesi come portatori di una nuova creatività – quasi analoga alla domanda di cambiamento delle ultime elezioni – opponeva che era accettabile un certo rinnovamento. Ma, quale immaginazione accetterà di restare a lungo al potere? Quesito che nell’ora presente continua ad interpellarci. Molte dunque le somiglianze con Kraus, altrettanto poeta lunatico, antidemagogico, non progressista né marxista, né fascista. Un originale, fuori dagli schemi letterari. Un uomo da caffè concerto che scherzava sull’erotismo, annoiato e alienato anche negli anni del benessere.

Su Roma – come la Vienna di Kraus – lanciava strali per gli scandali scoppiati e soffocati come i temporali d’estate. Tutti a mare, tutti in trattoria, tutti al Ministero a contare bustarelle. Gli chiesero le ragioni dello scrivere così disilluso, se avesse qualche ragione per le sue filippiche, peraltro soffici quanto pungenti. Ma era un silenzio che significava ripulsa di una realtà che non si concludeva mai e che spesso non gli dava neppure motivo di critica per la pochezza degli interlocutori politici con le quali ieri e oggi siamo costretti a confrontarci.

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