Foto di Daniele Messina

FRANCOFORTE – Esposizione degli ultimi scavi archeologici

Il museo archeologico di Francoforte è ospitato nel vecchio convento dei carmelitani, un luogo di gotica suggestione dove sono esposte in maniera molto didascalica i ritrovamenti del retroterra del confine dell’impero romano, il famoso limes. Ma nel chiostro sono spesso ospitate anche esposizioni straordinarie di reperti provenienti da altre regioni, e grazie a ciò viene mantenuto un legame particolare con l’archeologia italiana. Il 3 novembre scorso è stata inaugurata una esposizione che si protrarrà fino al prossimo 10 aprile, e che presenta in anteprima i risultati degli scavi condotti negli ultimi anni.

Il sito archeologico di Vulci è infatti uno dei più ricchi di reperti, ma purtroppo anche uno dei più depredati. Gran parte delle antichità etrusche che arricchiscono i musei di tutto il mondo, in Inghilterra, in Spagna, in Giappone, in Canada, ecc. provengono dalle necropoli abbandonate in quella campagna. E non sono necessariamente una refurtiva dei tombaroli: furono le stesse autorità politiche di allora a depredarle senza scrupoli per ingrassare il loro erario, ed il peggiore fra tutti fu Luciano Bonaparte, il fratello di Napoleone, a cui era affidato il Granducato di Toscana. La scoperta più formidabile, e finora ineguagliata, avvenne nel 1828 ad opera dell’archeologo Alessandro François, quando aprì la tomba intatta di Vel Saties. Tutto l’arredo originale della tomba venne portato via e commerciato in moneta sonante, ma il ritrovamento più sensazionale furono gli affreschi che ne ornavano le pareti, e che rappresentavano personaggi storici di cui parla Tito Livio nei suoi libri “ab Urbe condita”: nientemeno che Servio Tullio, il penultimo re di Roma, con il suo compare ed alleato Caelius Vibenna (in latino) ovvero Kailios Vipina (in etrusco) da cui ha pure preso il nome il colle Celio. Questi affreschi furono staccati dalle pareti ed oggi si trovano rinchiusi a Villa Albani, una delle più belle ed impenetrabili ville di Roma. Essa giace nascosta fra i palazzoni del quartiere che si estende fra la Via Salaria e la Via Nomentana.

Ancora la mano pubblica non è riuscita ad impossessarsi dei tesori archeologici in essa conservati, e che sono contesi fra gli eredi delle due casate nobiliari dei Torlonia e dei Visconti Sforza.

Il Parco Archeologico e Naturalistico di Vulci invece è una realizzazione pubblica recente ed aperta a tutti, e molto visitata, soprattutto fra i villeggianti delle spiagge tirreniche; per raggiungerlo c’è praticamente solo una stradina di campagna che si dirama dalla Via Aurelia al confine fra le regioni Lazio e Toscana, e percorre una bella campagna ondulata ma completamente spopolata fino ad arrivare alla pittoresca valle del fiume Fiora, che viene scavalcata da un ampio ed antichissimo ponte la cui arcata fu costruita dai romani su pilastri etruschi. Davanti ad esso si erge un castello medievale perfettamente conservato che oggi alberga un museo archeologico: un insieme molto suggestivo.

Il titolo ufficiale dell’esposizione è „Löwen, Sphyngen, Silberhände“ l’immortale splendore delle famiglie etrusche di Vulci. Alla conferenza stampa dell’inaugurazione partecipavano il Dr. Wolfgang David, direttore del Museo archeologico di Francoforte, con i due ospiti, la Dr. Simona Carosi, della Sopraintendenza Archeologica delle Belle Arti e del Paesaggio per l’Area Metropolitana di Roma, la Provincia di Viterbo e l’Etruria Meridionale, e il Dr. Carlo Casi, Direttore della Fondazione Vulci e e del Parco Archeologico e Naturalistico di Vulci. Questi due grandi esperti italiani hanno poi fatto da guida ai presenti commentando gli oggetti esposti nella loro specificità, ed aprendo nuove prospettive sulle cose già note. Se gli Etruschi nella loro espansione massima verso nord non sono mai arrivati oltre la Pianura Padana, i prodotti della loro cultura sono arrivati ben oltre le Alpi, ed infatti gli archeologi ne hanno trovati in gran numero soprattutto lungo la valle del Reno, che già nella tarda età della pietra era un’importante via di comunicazione. Un’altra acquisizione interessante riguarda la misteriosa lingua etrusca, che finora era considerata del tutto a sé stante e senza nulla di paragonabile. Adesso sappiamo che c’era un altro popolo che parlava una lingua ad essa affine: purtroppo su di esso ne sappiamo ancor meno che sugli Etruschi stessi, e ne sono rimaste poche tracce scritte sui reperti archeologici e perfino sulle rocce. I Romani li chiamavano Reti, ed erano stanziati nel territorio delle attuali province di Treviso, Vicenza, Trento e Bolzano, oltre che nella zona del Nordtirolo intorno a Innsbruck. Da loro hanno preso nome le Alpi Retiche. Già antichi autori come Plinio e Pompeio Trogo ritenevano i Reti per Etruschi emigrati a nord, e Tito Livio (V 33, 11) descrive la loro lingua come una specie di etrusco barbarico. Le più recenti indagini sui resti di Dna hanno invece sfatato la leggenda secondo cui il popolo etrusco sarebbe immigrato dall’Asia Minore. Dal punto genetico gli Etruschi non si differenziavano dai Romani, né da altri popoli circostanti come i Piceni o i Sabini. La differenza specifica dagli altri era esclusivamente di tipo culturale. Per quel che concerne gli affreschi originali della tomba di Vel Saties, la dottoressa Carosi ci ha assicurato che essi si trovano tuttora in ottimo stato di conservazione a Villa Albani, dove lei li ha ispezionati tre anni fa, e che arriveranno in mano pubblica non appena la controversia giuridica fra le casate nobiliari sarà appianata.

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