Nella foto: La città di Würzburg. Foto di ©Daniele Messina

Gli storici laici sanno bene che l’interpretazione corrente che intendono criticare può diventare a poco a poco la più forte prova di quello che pensavano di rileggere, tanto da ribaltare lo spirito di critica che li aveva mossi a rivedere le posizioni più conformiste. Lo sanno infatti coloro che con dati alla mano hanno provato a decodificare il mito delle Rivoluzioni dal ‘600 ad oggi, sia quelle borghesi che proletarie, sia quelle scientifiche che quelle sociali. E lo riconosce anche la scuola austriaca delle religioni, ivi compresa quella di stampo cattolico. Max Weber, Karl Barth e Giovanni Reale, tanto per citare tre maestri della storia delle religioni del ‘900, hanno fatto scuola perfino ai padri conciliari del Vaticano II. Più modestamente, ci limitiamo a citare un personaggio della storia della Chiesa cattolica alquanto ignoto nelle scuole specialistiche italiane, che fu rettore dell’Università di Würzburg, Johannes Hehn. Questi costituisce un esempio di studioso della storia della Chiesa cattolica, ma diciamo anche del Cristianesimo, che ha fatto da apri pista non solo alla chiesa ecumenica, ma anche alla chiesa locale. Soprattutto il prof Hehn, in pieno storicismo filosofico, quando cioè la critica storica si pose a rileggere le fonti del messaggio cristiano alla luce del contesto storico materialista, approfondì i profili spirituali con il metodo storico-critico, per rifondare il Cristianesimo mediterraneo nel confronto col mondo nordico protestante. La chiave di volta fu la ricerca delle prove papirologiche con il collaudato criterio filologico. Per il giovane sacerdote Johannes, intelligentissimo figlio di ricchi contadini bavaresi, la permanenza al seminario arcivescovile di Würzburg, lo portò a frequentare i giovani sacerdoti cattolici appena consacrati e a fondare uno dei più famosi collegi per studenti, il K.D.St. V. Gothia. Studiò quindi teologia dogmatica fra il 1895 e il 1898, anno della sua consacrazione. Nel 1899 divenne teologo e poco dopo cominciò gli studi di filologia semitica e si legò al maestro orientalista Friedrich Delitzsch, che a metà ‘800 aveva aperto la scuola storica veterotestamentaria che ebbe un seguace d’eccezione ancora oggi ricordato, Anton von Scholz.

Il tema centrale delle ricerche di Hehn – protrattasi dal 1900 al 1915 – fu l’idea di Dio, meglio la sua immagine, nella cultura babilonese e poi un quella ebraica. Dapprima racchiusa nel saggio storico “la funzione del numero 7 e del sabato nei Babilonesi e negli Ebrei del Vecchio Testamento” (1907) e poi nel suo principale studio, riconosciuto dagli storici, il suo capolavoro, “Considerazioni sulla fede monoteiste”, editato alle soglie della Grande Guerra e divenuto una delle fonti del filosofo a lui contemporaneo Oswald Spengler. L’immagine di Dio che Johan prenderà in esame in modo parallelo nell’Oriente a noi più vicino, la Mesopotamia e poi l’Egitto. Partendo dal parallelismo fra le religioni mesopotamiche, egiziane ed ebraiche, già avviato dal suo maestro von Scholz fin dagli anni ‘90 dell’800, trattò il tema originalissimo degli Assiri e degli Egiziani sull’origine dei rapporti fra natura e divinità, legate al sole, alle stelle, alle piante e al vento, come già emergeva dalla Genesi. Esaminò quindi la tendenza degli Assiri per una forma peculiare di Monoteismo, che vedeva nel Dio Marduk il re degli dei, che li assorbì a poco a poco. In un raro papiro che esaminò con notevole perizia, rinvenne la frase “Marduk è il solo Dio e non c’è altro Dio al di fuori di lui!” Di seguito, Hehn si occupò della religione ebraica e dei vari nomi di Dio con Jahvè in testa nella maggior parte delle definizioni, che seppe tradurre in “È qui!”, soprattutto quando Dio parlerà al suo Popolo. Era un’Icona che Johannes definì a di fuori della natura, un Essere con una designazione regale alternativa agli attributi della natura umana o animale. Il popolo che allora influì sulle tribù semitiche della valle del Giordano, sarebbe stato quello degli Amaleciti, ovvero dei Keniti, o Cainiti, dove Mosè l’egiziano – già cresciuto con lo spirito monoteista di Amenofi IV – si rifugiò inseguito dai suoi padroni.

Fu accolto dalla tribù di Jetro della stirpe di Abramo e di Agar, sposò sua figlia Sefora e con loro pregò sull’Oreb il solo ed unico Dio. Un Dio che non gli apparve non come era – un semplice roveto – ma ardente e inestinguibile come erano chiamati ad essere gli ebrei, ardenti di fede per il bene dell’Uomo. Hehn infatti volle interpretare in quell’immagine il centro dei libri profetici del Vecchio Testamento, la figura vivente di Dio creatore, protettore del popolo, divergendo però dalla tradizione mesopotamica nel fatto che si rivolgesse a tutti gli esseri viventi. Non al di sopra della creazione, ma parte della stessa. Tale coesistenza dell’immagine di Dio nella funzione umana di dominare il mondo, agendo di fatto come una Sua lunga mano, prevalse fra gli esegeti di inizio secolo ventesimo e sottopose Hehn a feroci critiche da parte del neotomismo antimodernista. Ne’ fu ben percepita la novità di pensiero che l’esegesi da lui patrocinata poteva generare in un momento prossimo all’evoluzione cruenta contro il giudaismo, giudicato intollerante, per come aveva propugnato il proprio monoteismo. L’accusa di modernismo lanciata dalle scuole tomiste lo investì con notevoli effetti. La scuola storicistica laica aveva sottolineato a cavallo dei due secoli le superstizioni teiste della chiesa romana e aveva fortemente stigmatizzato il ruolo subalterno dell’esegesi biblica legata alle tradizioni religiose devozionali.

La reazione della Chiesa cattolica non si fece attendere. La scomunica di Papa Pio X con l’enciclica Pascendi nel 1907, di condanna cioè di qualunque tentativo di rinnovamento della Chiesa cattolica era rivolta a recuperare il vuoto fra la cultura ecclesiastica ufficiale, chiusa in difesa di posizioni superate e la mentalità materialistica e scientifica, al fine di riconquistare la classe intellettuale, perché, il metodo devozionale di lettura dei libri sacri era rimasto legato alla mera speculazione greca, quando invece la cultura moderna era fondata sul metodo storico – critico – filologico. Proprio Johannes ne fu uno dei maggiori adepti, trattando l’idea ebraica fermamente fondata sul principio di non rappresentare l’immagine di Dio ma rimarcava la differenza con gli Assiri e negava ogni contaminazione della fede ebraica da simboli animali di divinità. Ma se negava la simbologia animalista, la ritrasferiva però nella figura dei Profeti, accentrando l’aspetto etico umano. Vide in Mosè la fonte morale del Decalogo, amplificò il ruolo della persona umana e da tale passaggio fece discendere non solo l’espansione dell’Ebraismo, ma anche la naturale espansione del Cristianesimo. Nondimeno, segnalò un certo filone esoterico legato ancora a Babilonia, quali i caratteri sacri del n. 7 (la teoria dei 7 gradini del tempio di Baal, le feste di 7 giorni, i sette giorni della settimana…), senza contare che ambedue i popoli avevano in comune lo stesso numero per l’origine del mondo. Ciò che fece storcere gli storici legati alla neoscolastica romana fu la figura di Mosè come profeta che avrebbe fatto derivare dai Cainiti il nome di Javè per Dio.

Chi erano costoro?

Secondo la storiografia protestante anglosassone di metà ‘800, i Keiniti – o Cainiti in italiano, peraltro giudicati come eretici da S. Ireneo di Lione nel 180 d.c. – erano una tribù che abitava a sud di Israele sul Sinai; pastori ed estrattori di rame e lavoratori di metalli; eredi di Abramo e imparentati con Mosè. Questi nei lunghi anni di esilio dall’Egitto ne aveva ereditato la fede monoteista e l’etica del decalogo, fino alla fusione con le tribù di Israele. Prova ne era il passo della Genesi 15-19, che il nostro storico si sforzò di interpretare proprio con il metodo storico critico aspramente criticato nell’Enciclica di Pio X, che riprendeva alla lettera le fonti paleocristiane secondo cui l’immagine del Dio cristiano era concepita come l’essenza razionale dell’uomo. Vista cioè come la presenza di Dio fra tutte le facoltà umane, quella che separa l’uomo da ogni altra specie. Lo stare in odore di eresia, per aver umanizzato Dio in modo storico, l’aver indugiato sugli aspetti un po esoterici presenti nel vecchio testamento; furono circostanze che lo fecero un po’ allontanare dalle gerarchie ufficiali anche di stampo agostiniano, ma non lo esclusero però dal divenire rettore dell’università di Würzburg sia durante la Grande Guerra e alla fine degli anni ‘20. Dai suoi studi storici emerse una terza via dell’immagine di Dio nella società contemporanea. La sua concezione dinamica, fondata non sul dominio creativo, ma nella interrelazioni di due Esseri in modo quasi incrociato, cioè l’Essere con l’altro, e l’Umano con il Divino, influenzò Karl Barth fin dalle prime letture storiche e giunse anche attraverso quelle dinamiche a distinguere chiaramente il Dio della fede dal Dio impersonale della Ragione, il Primo dei quali è l’unico Canale della Salvezza, la quale può derivare da Cristo soltanto, restando appunto nell’Uomo la semplice volontà di farsi salvare. Quasi ad attuare il progetto divino del vecchio testamento nella sua vita di sacerdote cristiano, Johannes rimase chiuso in canonica soltanto a decifrare iscrizioni o manoscritti mediorientali.

Benché il suo libro “viaggio nel monoteismo “pubblicato nel 1913, venisse ancora inserito da Papa PioX nell’indice dei libri proibiti ancora nel 1925, i suoi alunni Theo Bauer, Wilhelm Eilers e Einar von Schuler proseguirono sulle sue orme interpretando le iscrizioni di Assurbanipal e un altro grande orientalista, Maximilian Steck, avesse nel 1933 abbandonato la Germania all’avvento del Nazismo e la facoltà relativa fosse stata chiusa. Dagli anni ‘80 a oggi la scrittura cuneiforme, lo studio del popolo Ittita e i convegni di storia sugli Assiri e gli antichi Egizi, fanno di Würzburg un polo di studi orientali fra i maggiori del mondo.

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