Foto simbolica. Foto di ©Parentingupstream su Pixabay

I notiziari da più di un anno si occupano della malattia da Covid19. Parlando di indici settimanali e di nuove normative viene dato peso all’epidemia come fenomeno epidemiologico. Questo è giusto per capire l’impatto globale di questa situazione. In questo articolo vorremmo dare spazio ad un paziente ed alla sua esperienza con la malattia da Covid19 durante la prima ondata. Questo per far capire che dietro ai numeri ci sono storie, legami e affetti di singole esistenze. Per questione di privacy i dati personali sono stati cambiati e/o anonimizzati (*).

L’infezione e i primi sintomi

Mi chiamo Claudio(*), ho 73 anni e vivo in Germania da molti anni. Premetto che sono un ultrasettantenne attivo senza alcuna malattia oltre alla pressione alta. Mi sono preso il virus probabilmente durante una gita in famiglia fuori città. Due giorni dopo, il 9 marzo, è arrivata la febbre: 37,2. Niente di preoccupante. Però mi sentivo molto fiacco. La febbre di sera aumentava lentamente. Dopo 5, 6 giorni era salita già a 38,5. La debolezza cresceva, si facevano sentire dolori muscolari, nausea e conati di vomito. Non volevo fare altro che nascondermi sotto le coperte, coprirmi bene bene per aver caldo e dormire, senza muovermi di un centimetro. La prima settimana, un paio di volte, mi ero anche alzato per lavorare al computer. Non avevo appetito, non volevo bere né tè né acqua, non volevo medicine per fare calare la febbre. Volevo stare fermo sotto le coperte e basta. Avvertivo un leggero mal di testa, ma non più di tanto. La cosa più grave era proprio questa sensazione di debolezza estrema, mai conosciuta prima in vita mia. Era come sentirsi uno straccio, distrutto anche moralmente, senza voglia di niente. Altri sintomi tipici di malati Covid19, come la perdita dell’olfatto e del gusto, non li ho mai avuti.

Il ricovero

Mia moglie si è subito attivata per ottenere un tampone. Ma non è riuscita. Durante la prima ondata era quasi impossibile ottenere questo test. Semplicemente non accettavano pazienti solo perché avevano la febbre. A quel punto mio figlio mi ha portato l’ossimetro per misurare l’ossigeno nel sangue. I valori erano troppo bassi, di conseguenza ha chiamato l’ambulanza per farmi portare al pronto soccorso. È arrivato un operatore in tuta da astronauta e mi ha portato al pronto soccorso. Lì mi hanno diagnosticato una polmonite bilaterale e la positività al virus Covid19.

La degenza e il buio

La prima notte l’ho trascorsa in una stanza del pronto soccorso. Il giorno successivo mi hanno trasferito nel reparto Covid in geriatria. Mi hanno attaccato all’ossigeno e somministrato medicine, una medicina che si usa contro la malaria (l’idrossiclorochina) e una che si usa contro l’HIV (lopinavir/ritonavir). Ero ancora in grado di andare in bagno e di lavarmi da solo, però con fatica. Dopo 3 o 4 giorni -mi hanno riferito- la situazione respiratoria è deteriorata di molto. Quindi, i medici hanno deciso di intubarmi. Io non ricordo nulla di tutto ciò. Subito dopo sono stato trasferito in una clinica universitaria perché nell’ospedale in cui ero ricoverato fino a quel momento i posti di terapia intensiva scarseggiavano. Il percorso della malattia proseguiva, in un primo tempo, senza imprevisti e così il 6 aprile -dopo 15 giorni di intubazione e in coma artificiale- mi è stato tolto il tubo dalla bocca e riuscivo a respirare di nuovo autonomamente, cioè senza ventilatore. Però la situazione è cambiata dopo pochi giorni.

In pericolo di vita

Il giorno 11 aprile -sabato santo 2020- hanno dovuto intubarmi nuovamente. La respirazione si era ancora deteriorata. Nonostante la respirazione artificiale con il ventilatore lo stato di salute peggiorava continuamente. Era subentrata una polmonite batterica. Una seconda polmonite! I polmoni erano già danneggiati e molto indeboliti. E per di più alla polmonite si era associata un’insufficienza renale acuta. Si rendeva necessario il lavaggio dei reni. Per alcuni giorni il mio stato di salute rimaneva molto critico. Il 15 aprile i medici hanno chiamato mio figlio per dirgli che la mia condizione era quasi disperata, che c’era da temere per la mia vita Non sapevano più come intervenire per salvarmi. Mio figlio, il giorno dopo, è venuto a trovarmi, ma mi ha trovato immerso in un sonno profondo. Per fortuna, con il tempo, i valori dei reni, del sangue, ecc. lentamente miglioravano e i medici sono riusciti a stabilizzare la mia condizione.

Debolezza estrema

Il corpo era estremamente debilitato e nei giorni e nelle settimane successivi i progressi di salute erano pochi. La radiografia evidenziava che i polmoni erano gravemente danneggiati e i medici dubitavano che io potessi un giorno respirare di nuovo autonomamente. Per impedire l’irrigidimento dei polmoni mi hanno somministrato del cortisone. La terapia era efficace, ma hanno dovuto interromperla perché nel frattempo era subentrata un’infezione del flusso sanguigno.

Il 23 aprile hanno reciso la trachea e introdotto il tubo per consentire la respirazione. In tal modo è stato possibile diminuire sempre più l’anestesia ed io sono tornato ad essere cosciente. Rimanevo, comunque, attaccato al respiratore artificiale. Era ormai un mese che non mi muovevo più, perché costretto a letto, e quindi i muscoli erano ridotti al minimo ed io non riuscivo più a muovermi da solo. Dipendevo ormai sotto ogni aspetto dal personale sanitario.

Contatti con la famiglia

Da casa finalmente mio figlio e mia moglie sono riusciti a telefonarmi via tablet (videochiamata) e ho potuto vedere anche i nipotini. Ad essere sincero mi ricordo ben poco di quei giorni. Per il taglio alla trachea non riuscivo a parlare. Nonostante tutto, lentamente, ho cominciato a rendermi conto della situazione in cui mi trovavo. Consapevole di essere in pericolo di vita, ho provato una grande paura di morire. Non ero pronto a morire. La mia vita mi sembrava un fallimento su tutta la linea, i miei sogni tutti svaniti, i progetti falliti, un senso di colpa mi tormentava. Ho cominciato a rivolgermi a Dio per implorare la sua misericordia. Piano piano, dopo giorni di lotta interiore, mi sono sentito più calmo. Dopo un paio di giorni, è venuta anche una logopedista che mi ha spiegato che mi avrebbero messo una valvola fonatoria, trasmettendomi con le sue parole fiducia ed ho ripreso a sperare. La valvola, infatti, mi permetteva di comunicare con la voce. Una grande soddisfazione.

La guarigione e la luce

Il recupero delle forze fisiche era lento, e ogni tanto mi sembrava di fare progressi. Sono tornate gradualmente anche le capacità cognitive, l’orientamento nel tempo, la memoria…

La fisioterapista mi aiutava a riconoscere il lento recupero delle forze fisiche. Anche le infermiere, che si alternavano al mio letto, mi facevano notare i piccoli progressi e mi incoraggiavano. La logopedista passava da me quasi ogni giorno e con essa ho stabilito un rapporto di fiducia. Dalla terapia intensiva mi hanno spostato in medicina generale. Sentivo crescere le mie forze psichiche e la voglia di vivere. La malattia non mi spaventava più. Risultando poi negativo al Covid mia moglie e mio figlio, finalmente, potevano venirmi a trovare e potevo avere contatto con i nipotini tramite videochiamate. Un altro grande aiuto.

La riabilitazione e la dimissione

Quando mi hanno portato nel reparto di riabilitazione, ero abbastanza tranquillo e sereno, sicuro di guarire, anche se non sapevo dopo quanto tempo ciò sarebbe avvenuto. Le prime due settimane non riuscivo ancora a camminare, ma, una volta “messi i piedi a terra”, migliorava di giorno in giorno la capacità di muovermi. Gli esercizi di fisioterapia e di ergoterapia contribuivano ad aumentare progressivamente le mie forze fisiche e quindi ero di buon umore. Le infermiere, tutte molto cordiali e gentili, mi elogiavano per i miei progressi e c’era un clima molto familiare. Non mi sembrava di essere in un ospedale. Stavo bene anche perché, dopo due settimane di permanenza, sono tornato ad essere abbastanza autonomo: mi lavavo, mi vestivo, andavo in bagno da solo, mangiare non rappresentava più una fatica. Mi è tornata anche la voglia e la forza di pregare. Dopo cinquanta giorni in riabilitazione, sono finalmente tornato a casa.

È vero, questa malattia è stata una prova durissima. La guarigione è a buon punto, anche se ci sono voluti molti mesi. Mi sento spiritualmente più forte di prima. Vorrei rivolgere la mia preghiera ai pazienti Covid che soffrono come ho sofferto io, ma anche al personale sanitario, agli “angeli bianchi” che si dedicano con tenacia e tenerezza ai malati anche nei momenti peggiori: tenete duro!

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