Nella foto: Busto di Giambattista Vico, foto di ©Marie-Lan Nguyen/Wikimedia Commons, CC BY 2.5

Chi si avvicinasse oggi allo studio delle opere di Giambattista Vico deve armarsi di occhiali speciali, perché per buona parte sono scritti in latino, ovvero in un italiano contorto e non certo toscaneggiante, come avveniva per la maggior parte degli scrittori italiani nel periodo dell’Arcadia e dell’Illuminismo, mete culturali successive al Barocco e di poco antecedenti all’età romantica. Non solo: l’interprete deve escludere le fuorvianti letture che lo avevano visto esclusivamente estraneo alle correnti europee illuministe, come se fosse un fautore dell’anticartesianesimo e un romantico storicista in odore di ateismo.

Certamente le sue opere e la sua vita lo inquadrano a prima vista in queste due aree di pensiero e la difficoltà di lettura ha favorito le tendenze critiche crociane di stampo idealistico e le letture cristiane che lo iscrivono come un immanentista e quasi modernista ante litteram; oppure un esteta che avrebbe influenzato perfino la mitologia di un Heidegger e addirittura lo pongono come un profeta della contemporanea filosofia del linguaggio e della storia.

Vico fu anche ciò, ma non solo.

È stato un pensatore di confine che si pose contro il meccanicismo razionalista, ma che anche ritornò al classico senza scadere nel neoclassicismo winkelmaniano tutto riga e compasso.

Chi furono i suoi modelli culturali? Quale fu il contesto in cui visse? Fu come tanti pensatori di passaggio soffrendo di non essere più alla moda del presente? Dove e che cosa ce lo ripropone, al di là del superficiale accostamento alla nuova cultura italiana che da Napoli cominciava a pensare qualcosa di alternativo?

La filosofia della storia da lui proposta regge all’urto del ‘900, dopo Nietzsche e Gentile, che alla fine dell’800 non mancarono di tirarlo dalla loro parte per giustificare la crisi dell’Uomo Contemporaneo; senza contare come gli storici francesi degli anni ‘30, da Braudel a Bloch, da Furet ai Surrealisti, ne hanno fatto la loro bandiera, dopo che Vico era stato già indicato il padre intellettuale di Herder e giù giù fino al nazionalismo di Fichte e Hegel, Carlyle e Rosenberg, tutti filosofi che da destra a sinistra lo hanno segnalato nell’indice delle loro opere. Ragioni di spazio ci obbligano ad esporre sommariamente i capisaldi del suo pensiero, indicando quale punto interessava i tanti epigoni che lo hanno attirato a sé per confortare le loro posizioni ideologiche e per renderli così attuali alle loro pretese spesso poco malcelate di egemonia culturale.

“La scienza nuova”.

In particolare, la critica tedesca di metà ‘700 prendeva le mosse dalla risposta che l’accademia degli Eruditi di Lipsia oppose nel 1727 alla prima edizione dell’opera principale di Vico, “la Scienza Nuova”, apparsa a Napoli nel 1725. La critica era incentrata sulla base di un principio logico conoscitivo, detto della “Conversione del Vero con il Fatto”. Cioè era vero solo quello che l’Uomo aveva da solo contribuito a creare. La Natura per Vico non era interamente conoscibile: la si poteva osservare, capire, interpretare per così come era, mai la si poteva di per sé riprodurre.

Di qui il rigetto della formula magica dell’epoca, “Cogito ergo sum” di Cartesio, con tutto il relativo bagaglio scientifico, matematico e materialista. Ma a caratterizzare il pensiero di Vico va assolutamente rilevata la distinzione fra la conoscenza scientifica e quella storica, dove proprio la seconda appare più vera perché la comprensione dei fatti si ha perché il contesto è più conosciuto attivamente dall’attore stesso.

Di qui, la conseguenza che il passato non è stato frutto di fattori simili tipici della natura, ma che sono imputabili all’uomo, tanto che proprio lui li può meglio conoscere in tutti i particolari. Inoltre, nella “Scienza Nuova”, non mancava la attenzione per ciascuna epoca storica – per Vico erano tre, quella mitica, quella degli eroi e poi quella della ragione umana – che aveva proprie caratteristiche fra loro connesse tali da apparire incastrate l’una nell’altra in modo totale (posizione che Hegel riprenderà in pieno!).

Nondimeno, la risposta alla debole eccezione dell’Accademia, oltre a rimarcare la nuova dimensione della storia così argomentata, trovava un ulteriore elemento che riguardava l’importanza dell’economia nella crescita della società e negli aggregati politici, circostanza che Marx rilevò nel “Capitale” più di un secolo dopo.

Soprattutto, Vico rimarcò il ruolo della filosofia nella ricostruzione della storia, ma anche la natura ancillare della filosofia alla storia, cioè la sintesi tra idea e azione, fra percorso teorico e prova concreta del fine della storia stessa.

Spicca proprio in questo profilo la necessità di recuperare il senso storico rispetto alla tirannia illuminista, per esempio di quell’epoca che con Voltaire, Montesquieu e Rousseau, svaluterà la storia antica, rilevando le evidenti falsità senza però approfondire il contesto degli eventi e le fonti tradizionali della Bibbia ed Omero, dal diritto romano al diritto canonico.

“Il diritto universale”.

Opere che Vico aveva esplorato già nel 1720 con la sua opera di filosofia del diritto, “il diritto Universale”, che però non gli consentì di accedere come ordinario alla facoltà di giurisprudenza di Napoli con un ottimo stipendio che gli avrebbe permesso una vita meno disagiata, visto che a stento la sua numerosa famiglia – ben 8 figli! – poteva vivere del modesto compenso per l’insegnamento di retorica, insufficiente anche per potersi pagare le sue ricerche, in una città dove la cultura era divisa da una maggioranza di intellettuali reazionari cattolici che a Vico guardavano con sospetto perché aveva fra i suoi maestri Platone, Tacito, Bacone e Grozio, non certo la Scolastica e il Tomismo; e da una nutrita minoranza che osannava Cartesio, Spinoza, Bayle i futuri padri dell’Illuminismo francese.

I lunghi anni giovanili di studio, presso la biblioteca di Vatolla, nel Cilento, come precettore del figlio del nobile Domenico Rocca, gli avevano aperto la mente sulla letteratura del Rinascimento e gli avevano portato il suo grande favore per la fantasia e l’ingegno dell’uomo, con la pari passione per la poesia, il mito, il vivere umano nelle età preistoriche. Aree di pensiero inadatte alle regole della ragione e più tipiche dell’Uomo, come la lettura di Pascal gli aveva già dimostrato. Di qui, il continuo richiamo alle favole, all’età della fanciullezza, il ritorno alle radici, che attraverso le forme del linguaggio e all’etimologia andava riscoprendo, magari ricostruendo eventi, usi e consuetudini delle istituzioni romane, prime fra tutte la legislazione arcaica delle XII tavole romane.

Non che Vico disconoscesse la Ragione e la civiltà contemporanea che da essa trae fondamento. Ma era convinto che essa fosse una conquista alla fine di un non breve percorso, fra vittorie e sconfitte, i famosi “corsi e ricorsi”. passi indietro che potevano anche essere semplici sconfitte, oppure una definitiva decadenza, come era stato per l’Impero Romano. Soprattutto, Giambattista, guardando anche alla sua vita privata notò un aspetto che assunse dal maestro Bacone, le cui vicissitudini politiche nell’età elisabettiana gli sembrarono analoghe alle proprie nel viceregno napoletano dominato dalla Spagna alquanto povero, con una borghesia spesso miserabile e asservita alla nobiltà terriera e riottosa alla efficienza austriaca che per un ventennio tentò vanamente di sradicare i privilegi della classe latifondista, a cui “Cafoni” della provincia apparivano stranamente legati. Cominciò a raccogliere le favole e i miti delle tradizioni popolari, raccontate dal Basile, e a provare a riportarle in un epoca storica meno remota, cercando di coglierne un significato ancora valido, non disgiunto da un singolare rilievo fantastico cui attinsero nell’800 i fratelli Grimm.

Vico e Herder.

Metodo che mezzo secolo dopo Herder adotterà in pieno in Germania, senza contare quello che il nostro Pitrè ripeterà a cavallo del ‘900. E qui il grande incontro con questo grande etnologo della Germania, che Croce e Spaventa useranno come cavallo di Troia per convalidare la teoria della primazia intellettuale di Vico sui romantici, avallata dai commenti di Vincenzo Cuoco nel 1804, in età napoleonica. Vico, cioè, avrebbe per primo esposto – l’anno è sempre il 1720, proprio nel “Diritto Universale”. Una teoria del linguaggio anticonvenzionalista, vale a dire, che la lingua, da strumento di mera espressione del pensiero, diveniva essa stessa pensiero, perché motore aggregante della famiglia nell’età degli Dei, della tribù nell’età eroica e della Nazione, in forma giuridica di popolo. La lingua come collante della massa e simbolo di unità nazionale, idea che fulminò i romantici, da Fichte a Mazzini. Ma che oggi caratterizza una qualsiasi comunità attorno a qualunque mezzo diffusivo, ivi compresa la vigente civiltà dei computer dove il loro linguaggio è sinonimo di una vera e propria civiltà culturale.

Attualità.

Come si è detto, fu però Croce a rilevare come tante espressioni di Vico erano state magnificate da Rosmini per il ruolo della Provvidenza divina, cui Vico attribuì la mediazione e la guida dell’azione umana. Ma anche va citato il radicalismo materialista di Cattaneo che ne individuava lo spirito economico popolare. Tutte queste interpretazioni confermano il sapore ambivalente del nostro Autore. Era anche il caso del fattore religioso: fondamentalista e deista, immanentista e panteista, quando Vico vedeva nella Provvidenza non un intervento esterno del Creatore, quanto un rafforzamento della ragione umana, di quello spirito assoluto che Hegel e Marx avevano individuato nel materialismo storico. E Gentile non mancò di ritrovare nel filosofo napoletano quella attuazione dello Spirito nel farsi pensante proprio nella storia degli uomini. E che dire di Nietzsche, quando pensò di riformulare “i corsi e ricorsi della storia”, sotto le spoglie dell’eterno ritorno del presente e del passato, in un immaginifico percorso a spirale della storia dell’uomo come dei popoli? Fino ad Isaiah Berlin, che negli anni ‘70 lo qualificò come un eccezionale ammonitore dello scientismo imperante, un pensatore “tabù”, che aveva messo la mano sulla piaga degli eccessi del razionalismo, avvertendo che la accettazione acritica della Ragione aveva prodotto il mostro nazista e stalinista, privando la società contemporanea del ruolo creativo e pluralista dell’Uomo vichiano, nella misura in cui all’Uomo di scienza occorreva affiancare l’Uomo poeta, l’Uomo della tradizione, l’Uomo del diritto e l’Uomo dell’arte. Forse oggi è questo il percorso per dare un senso alla sua storia.

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