Piazza Bra con l’Arena di Verona

Con Goethe dal Garda a Venezia

Nel lasciare la navigazione in barca sul lago di Garda, Wolfgang Goethe esprime il suo rimpianto per la “limpidezza del lago”, per “l’amenità di quelle sponde”, per quei “paesi e villaggi che si stendono lungo le rive”. Inebriato da tanta bellezza, sbarca a Bardolino, carica il bagaglio su un mulo e s’inerpica “sul dorso del monte”, pronto ad ammirare la coltivazione a terrazzi e “la magnificenza della contrada”, assistito da un tempo ideale: “Sono molti anni che non si era avuta qui stagione tanto propizia. Il cattivo tempo lo hanno mandato tutto a noi”.

Verona, un luogo magico

Giunge a Verona attirato dalla grandiosità dell’anfiteatro, “il primo monumento ragguardevole dell’antichità che io abbia visto”. L’impressione immediata è quella del cratere di un vulcano, in cui però tutti gli ordini sono ben ordinati e formano “un complesso unico”, in forza della “semplicità dell’ellisse”. Un monumento ben conservato dai Veronesi che, secondo Goethe, meritano un encomio.

Si sofferma a descrivere il frontespizio del Museo lapidario fondato da Scipione Maffei, prospiciente piazza Bra, a pochi passi dall’Arena, quelle “sei colonne grandiose, d’ordine ionico”, e poi la raccolta di “oggetti antichi”, i bassorilievi, gli altari, i frammenti di colonne, le tombe. Il poeta ne ricava sensazioni intense: “L’aura che si spira dalle tombe degli antichi è soave, quanto il profumo che emana da una collina piantata da rose. L’aspetto di quelle tombe non è mai cupo, spesso è commovente e sempre pieno di vita. Provai una vera soddisfazione a contemplare in vicinanza quelle sculture”.

Ad attirare la sua attenzione è anche la singolare foggia del vestito delle donne, in particolare “l’ampia cappa dai lembi lunghi che girano a modo di sciarpa attorno alla vita “lo zendalo, fissato in cima al capo con uno spillone”.

Tornando dall’Arena, scopre quello che lui definisce uno “spettacolo moderno”: 4 o 5.000 spettatori raccolti attorno a due tavolati in leggera pendenza, che seguono con battimani “quattro gentiluomini veronesi e quattro gentiluomini vicentini colla destra armata di un bracciale di legno, attenti a ricacciare il pallone in campo avverso, fin tanto che non cade per terra”. È il gioco del “pallone con il bracciale”, nato nelle corti rinascimentali, derivato dalla pallacorda. Goethe è preso dalle “movenze bellissime, meritevoli di essere scolpite in marmo, di quei giovani arditi, vigorosi, vestiti di bianco”.

Ma la sua scoperta più importante sono alcuni capolavori della pittura italiana, anche se riconosceva “di conoscere poco dell’arte, dello stile, della maniera dei pittori”. Contempla l’Assunta del Tiziano nel Duomo, i “dipinti bellissimi” dell’Orbetto nella galleria Gherardini, quelli altrettanto belli del palazzo Bevilacqua, in particolare il “così detto paradiso del Tintoretto [ora al Louvre]… la leggerezza del pennello, la vivacità e la varietà delle espressioni davvero meravigliose, che producono la più grande soddisfazione”.

Un piacere diverso, ma altrettanto intenso, Goethe lo coglie al tramonto, prima che scenda la notte. Mentre “noi, abitatori delle regioni settentrionali, sappiamo a mala pena che cosa sia il giorno, immersi di continuo nell’oscurità e nella nebbia”, qui, un’ora prima della notte, “comincia la nobiltà ad uscire a passeggio in carrozza, altri si portano sul Bra, i cavalieri s’intrattengono con le dame fino a notte inoltrata. E la vista di quella riunione era piacevolissima”.

Verona è una città molto viva: “grande il movimento di popolo, le botteghe dei mercanti, gli opifici di artieri, i sarti ed i calzolai che occupano parte della strada, ridotta a laboratorio”. Nei giorni di mercato, poi, il poeta si gode lo spettacolo e la naturale disposizione degli abitanti all’allegria: “La folla è grandissima, si vedono vere montagne di frutta, di legumi, di aglio, di cipolle, tutti gridano, cantano, scherzano, si spingono, si urtano, fanno strepito e ridono senza posa”. E quella vita gioiosa non cessa col calar della sera: “Il rumore ed i canti continuano, si sente cantare in ogni strada la canzone di Marlborough. La mitezza del clima consente questi spassi anche ai poveri e l’aspetto del popolo vi guadagna”.

Da buon osservatore, si accorge di attirare lo sguardo dei passanti un giorno in cui porta in mano “un ramoscello di cipresso, tolto dai cipressi giganteschi del giardino Giusti, vivi da non meno di tre secoli e degni di venerazione”. Non poteva certo pensare che uno di quei cipressi secolari, all’ingresso del parco, sarebbe divenuto il simbolo del giardino col nome di “Cipresso di Goethe”, fino a due anni fa, quando la furia del vento lo abbatté.

Vicenza, culla dell’architettura palladiana

Nel percorso verso Vicenza, come annota il poeta il 19 settembre, continuano i “loci amoeni”: la strada “bella, ampia e stupendamente mantenuta corre attraverso fertili terreni, nei quali ricadono in festoni i tralci delle viti, piegati sotto il peso di grappoli ormai maturi”. E continua l’aria gioiosa e serena dei luoghi del vino, con strade che riboccano di persone e di “carri dalle ruote basse, piene, tirati da quattro buoi, che in grandi cassoni portano le uve ai tini, dove queste si pestano e si lasciano fermentare”.

Teatro Olimpico a Vicenza. Foto di ©Daniele Messina

Vicenza “giace quasi in un seno” formato dalle colline. Goethe viene rapito dalla bellezza delle architetture palladiane “per la loro imponenza e per la perfetta armonia delle loro dimensioni. Si scorge veramente un non so che di divino nelle sue linee armoniche”. Resta incantato dal Teatro Olimpico, “d’inarrivabile bellezza”, e dagli altri “edifici stupendi eretti dal genio del Palladio”, anche se, come aveva già lamentato a Verona, sono esposti “alla trascuranza ed al sudiciume” da parte dei contemporanei, che “non sanno comprendere la bellezza di un’esistenza veramente nobile”.

Il poeta incontra personaggi importanti, il dott. Tura, studioso di storia naturale ed appassionato di botanica, ed il vecchio architetto Scamozzi, erede della lezione palladiana, autore di una sorta di Baedeker del tempo “Il forestiere istruito”. Appena fuori città, visita la Rotonda, “che ha l’aspetto di un tempio” e lo entusiasma: “Forse mai l’architettura ha raggiunto tal grado di magnificenza”.

Un’ultima notazione per le donne vicentine, donne di garbo, graziose e cortesi, “ben fatte di corpo”, senza far torto alle veronesi, e ricorda in particolare “una brunetta ricciuta”, per la quale aveva provato un “interesse speciale”.

Padova, dove l’immensità si accosta all’idea di infinito

Di Palladio ha modo di occuparsi anche a Padova, dove arriva il 26 settembre, in una giornata stupenda, accompagnato lungo il percorso da una serie di contrafforti calcarei e di colli di natura vulcanica sulla sinistra e sulla destra dalla visione di una pianura fertilissima, fra siepi ed alberi da frutta, con zucche “che opprimono i tetti col loro peso” e “cocomeri meravigliosi, che pendono dalle travi e dalle spalliere”. Trova infatti in una bottega di libraio una nuova edizione delle opere di Palladio pubblicata dal signor Smith e consigliata da alcuni frequentatori “cortesissimi” e molto informati.

Prato della Valle a Padova. Foto di ©Daniele Messina

Quindi visita con interesse la città, a partire dall’imponente palazzo dell’Università per passare all’Orto botanico, “grazioso e di aspetto ameno”, e poi al Prato della Valle, una vasta piazza di forma ellittica, circondata da statue d’uomini illustri e da un fossato, una piazza che sarà bellissima quando “saranno atterrate alcune catapecchie che la deturpano”. Ed ancora s’incanta incontrando, “nell’oratorio della Confraternita di S, Antonio” e nella chiesa degli Eremitani, Tiziano, Piazzetta, Mantegna, “la forza del loro genio e l’energia della loro natura, che valsero a sollevarli dalla terra ed a renderli capaci di produrre figure celestiali”. Infine sbalordisce di fronte agli spazi coperti del Palazzo della Ragione, trecento piedi di lunghezza, cento di larghezza, “una piazza di mercato, un’immensità che produce grandissimo effetto e si accosta all’idea di infinito”.

Ma viene anche l’ora di congedarsi da Padova e d’imbarcarsi “sulla Brenta” per Venezia, sperando di “contemplare la laguna e la signora e sposa del mare, alla luce di uno splendido sole”.

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