Solo Ungheria, Slovenia, Grecia e Malta ci superano, mentre i più indipendenti sono gli scandinavi (in media ca. il 3%), che vivono – guarda caso – in Paesi con un sistema assistenziale tra i migliori d’Europa.
In tutti i casi, ad eccezione della Romania, la percentuale di donne che non vivono più con i genitori è maggiore rispetto a quella degli uomini. Un dato interessante, visto che il tasso occupazionale femminile è notoriamente inferiore. La spiegazione potrebbe allora risiedere in un desiderio di emancipazione più spiccato o magari nel fatto che le donne possono più spesso affidarsi al proprio compagno, solitamente più adulto. Non è un caso, però, che lo scarto sia più evidente proprio in quei Paesi in cui le donne soffrono di minori discriminazioni.
Quella italiana, però, è tutta un’altra storia. Per noi la questione “vivere a casa con i genitori” è diventata un vero e proprio problema. Nelle società occidentali, infatti, il passaggio dalla fase giovanile a quell’adulta è caratterizzato da cinque tappe fondamentali: la conclusione del periodo di formazione, l’indipendenza abitativa, l’autonomia economica, il matrimonio o i suoi succedanei e la genitorialità. Ebbene, il raggiungimento di queste cinque tappe in Italia avviene più tardi che in altri Paesi europei. Così, se per Eurostat i giovani sono quelli che vanno dai 15 ai 24 anni, per l’Istat ed altri istituti di ricerca italiani la fase si estende fino ai 29 anni ed oltre. Siamo insomma di fronte ad una categoria fuori statistica: non si tratta più di giovani, ma neanche ancora di adulti.
C’è allora chi li chiama “giovani adulti” e chi “adultescenti”. Ma è giusto definirli “bamboccioni”, come fece il ministro Brunetta nel 2010? In realtà, la gran parte di loro farebbe volentieri a meno di abitare ancora con mamma e papà, ma in Italia gli ostacoli da superare a volte sono troppi: il tasso di disoccupazione giovanile è quasi al 30%; chi lavora, guadagna comunque meno di un suo coetaneo straniero e a volte in nero. Senza soldi e stabilità, l’affitto di una casa non è per tutti, soprattutto a Roma e Milano, dove il costo anche di una sola camera supera i 400 euro in periferia.
I contratti proposti, invece, escludono i giovani dall’accesso al credito e al mutuo: le banche non reputano affidabili chi ha contratti da precari, cioè quasi tutti i giovani italiani. Così, anche matrimonio e figli arrivano sempre più tardi, con l’effetto che l’Italia oggi è il Paese con meno giovani d’Europa. Rimangono allora due possibilità: o si continua a vivere con i propri genitori o si va a vivere altrove ma senza rinunciare all’aiuto della famiglia. Se all’estero, infatti, l’indipendenza viene incentivata con ammortizzatori sociali mirati, in Italia a pensare ai giovani sono sole le famiglie, provocando non solo una forte discriminazione tra possibilità, ma anche una graduale perdita del senso della comunità, subordinata al bene individuale.
Disoccupazione e burrascoso ingresso nel mondo del lavoro hanno poi fatto allungare a dismisura il periodo della formazione: il giovane italiano studia fino a tarda età, si specializza al massimo, facendo un master dopo l’altro. Questo fenomeno si chiama “over education” e spesso si risolve in un sotto inquadramento, vale a dire nel famoso scarto tra il titolo di studio richiesto e la mansione esercitata. Perdendo numero e quindi peso politico, infine, i giovani sono usciti anche fuori dall’agenda politica del Paese.