Ing. Flammini, su questo delicato momento economico e sociale che vive l’Italia, specialmente riferito al tema del lavoro precario e del lavoro che non c’è, da un osservatorio attento e molto addentro al problema quale è il suo, può darci una sua valutazione?
Questa è indubbiamente la crisi più dura che il nostro paese abbia attraversato dal dopoguerra ad oggi. Una crisi che, sebbene nata fuori dal Paese, ha fatto venire al pettine tutta una serie di nodi e di disfunzioni che la nostra economia ha accumulato negli ultimi 30 anni. Oggi noi ci troviamo a pagare il conto degli errori e delle leggerezze con le quali è stata governata la nostra economia. E questo conto oggi dobbiamo pagarlo noi, né possiamo pensare che qualcuno lo paghi per noi. E siccome il conto è salato, altrettanto salati sono gli effetti che ci troviamo a subire. Molte imprese hanno chiuso, altre sono fallite e di conseguenza molti lavoratori hanno perso il lavoro. Si tratta spesso di veri e propri drammi sociali che il Governo deve cercare di attutire con tutte le misure possibili. Ma tutti dobbiamo avere la consapevolezza che la medicina è amara, molto amara, proprio perché la malattia è grave.
Dal suo punto di vista, quante sono le imprese laziali che sono state costrette a chiudere alla luce di queste difficoltà o che sono in grave crisi?
Guardi, questo dato è in costante evoluzione e purtroppo andrebbe aggiornato quotidianamente. Le dico soltanto che dal 2008, anno d’inizio della crisi, al dicembre 2011, secondo i dati delle Camere di Commercio, nel Lazio hanno cessato l’attività quasi 5 mila imprese, delle quali poco meno di 2.000 nell’anno 2011.
I giovani e la crisi. E la paura da futuro, ormai rassegnati all’incertezza, all’impossibilità di fare progetti di vita. Federlazio organizza corsi di formazione, stage e percorsi verso l’occupazione. Qual è l’anello di raccordo mancante che non consente più da qualche tempo quello che dovrebbe essere il passaggio naturale, ovvero l’inserimento – dopo gli studi e le qualificazioni – nel mondo del lavoro, così come succedeva ai loro genitori?
Vede, ci sono due elementi che definiscono quello che lei chiama l’anello mancante. Il primo e più importante è il mercato. Oggi le imprese si trovano di fronte ad un mercato e ad una domanda che ristagnano. Le imprese hanno visto calare i propri fatturati e la propria produzione, né si vede all’orizzonte un’inversione di tendenza significativa. In questa situazione è evidente che da parte di molte imprese ci sia una certa resistenza ad inserire nuovi lavoratori in azienda: per fare cosa, se i prodotti e i servizi non si vendono? Il secondo elemento è che spesso le imprese hanno bisogno di manodopera con una preparazione tecnica mentre il nostro sistema continua a sfornare laureati con competenze generiche, a volte approssimative e peraltro in corsi di studio a volte anche inflazionati. Questi sono i problemi. L’inserimento nel lavoro dopo il periodo di formazione non può essere un processso automatico e garantito per legge. Se il mercato tira e le imprese sono in fase di espansione, allora si possono aprire spazi per nuovi ingressi. In caso contrario, perché le imprese dovrebbero assumere?
Disoccupazione, lavoro intermittente, precariato. E‘ il quadro che il nostro tempo propone alle giovani generazioni. Ma non si ha piena consapevolezza del dramma che vive chi il lavoro l’ha perduto – ed è difficile da ritrovare – avendo 50 anni e più, un’età in cui ci si sente irrimediabilmente bruciati, esclusi. Un senso di sconfitta che mina nell’individuo la fiducia in se stesso e nella società…
“Io personalmente comprendo benissimo questo dramma. Il lavoro è ciò che dà non solo il sostentamento economico e la possibilità materiale di realizzare la nostra vita, i nostri sogni e i nostri obiettivi, ma è anche ciò che dà identità e dignità all’individuo. Perdere improvvisamente il lavoro a 50 anni, quando si hanno carichi familiari e impegni che erano stati assunti quando le cose andavano bene, è un dramma che può veramente sconvolgere la vita e la mente delle persone. Io credo che l’esperienza di questi lavoratori sia un patrimonio che non può e non deve andare perduto. Ma torniamo al problema di cui parlavo un attimo fa. Occorre che l’economia riparta, altrimenti nessuno potrà garantire un lavoro che non c’è. E questo potrà essere in parte l’effetto di politiche economiche nazionali, in parte di politiche economiche poste in essere da altri paesi, in parte sarà conseguenza di processi spontanei dell’economia. Al fondo credo però che occorra cambiare i vecchi paradigmi mentali, abbandonando antiche consuetudini e abituarci all’idea che dovremo lavorare di più, lavorare meglio e cercare di fare meglio di altri quello che già facciamo. Inoltre la competizione dei giovani di altre nazioni, in particolare dell’area anglosassone, abituati a spostarsi anche di nazione, pur di trovare il lavoro che più è consono alle proprie capacità, è ormai sentita anche nel nostro Paese. Quindi ai giovani dico: fate bene il vostro lavoro di studenti, leggete riviste internazionali, studiate il mercato europeo ed extraeuropeo, e datevi da fare per diventare personaggi internazionali.
Sul precariato giovanile. Quanto si riflette, secondo Lei, questa insicurezza individuale, questa "invisibilità sociale", questo capitale umano inutilizzato, in una dimensione collettiva, più estesamente sociale?
Indubbiamente il precariato ha segnato fortemente la psicologia di un’intera generazione e questo è stato un elemento nuovo per il nostro Paese, abituato invece ad un sistema di welfare fondato sull’identificazione del lavoratore con il proprio posto di lavoro. Questa però è una condizione che noi non potevamo più permetterci e che in altri Paesi, peraltro, forse non è mai esistita nella stessa intensità. Questo cambio di paradigma ha indubbiamente segnato in modo particolare le generazioni che oggi hanno 30- 40 anni, perché sono quelle che ci si sono dovute confrontare per prime. Con il tempo, come detto prima, ci si dovrà abituare ad una mobilità spinta fatta di passaggi da un lavoro all’altro e ad un sistema di sicurezza sociale modellato sulla nuova realtà.
L’elenco di chi non ce l’ha fatta per mancanza di lavoro, nel 2012, è già tristemente lungo. Un fenomeno in crescita, relegato solo nelle pagine della cronaca. E presto dimenticato. Per spezzare questo silenzio che avvolge una strage quotidiana, Lei si è fatto promotore di un’iniziativa.
Sì, proprio per richiamare l’attenzione sulla gravità della crisi e sulle tinte drammatiche che ha assunto in quest’ultimo anno con la sequela di suicidi di imprenditori e lavoratori che hanno riempito purtroppo le cronache dei quotidiani, Federlazio si è fatta promotrice di un’iniziativa pubblica, cui hanno immediatamente aderito tutte le associazioni imprenditoriali e tutti i sindacati. Si tratta di una fiaccolata silenziosa che abbiamo voluto organizzare per testimoniare la nostra vicinanza e la nostra solidarietà alle famiglie di quelli che possiamo chiamare veri e propri “caduti sul lavoro”, siano essi imprenditori o lavoratori, e, allo stesso tempo, esprimere il malessere, il disagio, o per meglio dire l’insostenibilità di una situazione che non ci consente più di svolgere la nostra attività di imprenditori, e conseguentemente di assicurare l’occupazione ai nostri lavoratori.