Povera Italia, e povera lingua italiana! La nostra lingua è una risorsa straordinaria, una delle poche “lingue di cultura” in cui si sono espressi alcuni dei più grandi scrittori di sempre, una lingua amata e studiata in tutto il mondo; e noi italiani ci ostiniamo a maltrattarla oltre ogni limite. I nostri politici non hanno la minima idea di cosa voglia dire e di quanto sia importante sostenere la diffusione dell’italiano all’estero.
Da decenni si susseguono i tagli ai budget degli Istituti italiani di cultura e della Dante Alighieri e non si capisce perché mai la gestione di questo patrimonio debba continuare ad essere affidata alla diplomazia (ossia al Ministero per gli Affari Esteri) e non ad un’agenzia specializzata autonoma oppure facente capo, per esempio, alla Presidenza del Consiglio. La conseguenza è che inglese, spagnolo, francese e tedesco, anch’esse lingue di tradizione e prestigio, ma sostenute dai rispettivi governi nazionali con ben altro impegno e ben altri mezzi, si rinforzano guadagnando sempre più posizioni a spese dell’italiano.
La conseguenza è che in seno alla Comunità Europea, nel parlamento di Strasburgo, o nella regolamentazione dei brevetti europei, l’italiano lentamente scompare arretrando al livello di uno dei tanti idiomi del mondo. Questo giornale ha denunciato molte volte le manchevolezze e le miopie delle autorità istituzionali in fatto di politica linguistica. Del resto, quando un governo decide di chiamare “Ministero del Welfare” il proprio ministero del Lavoro (è successo qualche anno fa per volontà del ministro leghista Maroni), ciò significa che quel governo di fatto ha già accettato la sconfitta della propria lingua. Ma la novità di oggi è che riusciamo a fare degli autogol ancor più clamorosi.
La notizia viene dal Politecnico di Milano, prestigioso ateneo di fama internazionale, dove si è deciso di varare una «rivoluzione linguistica »: a partire dal 2014 tutta l’attività accademica (lezioni, esami etc.), a livello di laurea specialistica e di corsi per dottorandi, avrà luogo in lingua inglese. Avete capito bene? Succederà che un professore italiano in un’aula di un’università italiana salirà in cattedra per parlare ad un uditorio di studenti quasi tutti italiani e parlerà in inglese! Tutto ciò con l’avallo, anzi l’apprezzamento del ministro dell’Istruzione Francesco Profumo, il quale vede in questa scelta demenziale «un passo avanti importante lungo la strada dell’internazionalizzazione ».
A me pare piuttosto un passo in avanti sulla strada del teatro dell’assurdo. Ora, personalmente non ho nulla contro l’inglese e credo che sia giusto che tutti lo studino e la pratichino. Arrivo anche a dire che in un’università italiana certi corsi con contenuti tecnici particolari potrebbero essere offerti in inglese (magari facendoli tenere a professori madrelingua). Ma perché imporre a tutti la scelta anglofona? Perché costringere un docente italiano a parlare inglese (e quale inglese poi? Con quale pronuncia?) a studenti italiani? È questo il futuro? È uno scenario assennato? Qualcuno crede che in Francia o in Germania si agisca in quel modo?
A me sembra che questa retorica dell’inglese per tutti, magari per sentirci più moderni e produttivi, abbia un po’ stufato. L’italiano, per altro, ha una sua tradizione e una sua dignità anche nel campo della scienza, tradizione e dignità che dovremmo salvaguardare anziché combattere. Se arriviamo al punto di rinunciare spontaneamente alla nostra lingua nazionale come lingua veicolare dell’insegnamento, significa che ci siamo definitivamente arresi, che abbiamo preso atto che l’italiano non vale più nulla.