Il personaggio Nostradamus sta riscuotendo un certo interesse; già riceviamo richieste di occuparci di personaggi forse ancora più misteriosi, come Paracelso. Altri amici ci chiedono più lumi sul cardinale di Richelieu. Insomma, la storia, così come la raccontiamo noi, la si legge volentieri, e a noi fa piacere scriverla. Benissimo! Dunque, eravamo arrivati, se non ricordo male, alla morte di Enrico II di Valois, prevista nella quartina trentacinquesima della Prima centuria, e annunciata direttamente al re.
Non solo per questo, la relazione di Michele con la casa reale di Francia, diventava sempre più difficile, nonostante la protezione della regina, Caterina dei Medici. Tant’è che, dopo un po’, egli si ruppe le scatole di tutti gli intrighi, mise nel sacco le sue poche cose, arrotolò i papiri delle quartine che scriveva ogni sera al lume della candela di sego, caricò il tutto sul carro di qualche contadino e se ne tornò alla sua Salon. Che lui amava poco, bisogna aggiungere; insalubre com’era, sottoposta al soffio del Mistrale, e i cui abitanti Michele chiamava “bestie brutte e gente barbara, nemica memorabile di belle lettere”. Fatto sta che le “bestie brutte” gli volevano bene, lo rispettavano, lui, il dottore, il medico, l’alchimista, l’astrologo, l’erborista e il dicitore del futuro.
A Salon, Michele raccolse le sue ultime forze e si sposò con la vedova Annette Ponsard. Con la quale sparò le sue ultime sei cartucce, e mise al mondo sei bei figlioli, tre maschi e tre femmine, essendo, non a caso, il sei il numero dell’infinito e il tre quello della perfezione.
Fu vera felicità, quella di Michele della signora Ponsard, già vedova Beaulme, già vedova Gemella? Questo non lo sappiamo; sta nel libro segreto che ogni famiglia scrive giorno per giorno. Certo è che Michele, pur invecchiando precocemente, continuava a lavorare molto, dall’alba alla notte; si riposava soltanto qualche ora al pomeriggio, sedendo sulla panca di fronte alla porta della loro casa, nel quartiere di Ferreiroux, all’ombra del castello, con le gambe gonfie di gotta che pendevano molli come salsicce, e gli occhi giallastri, pieni di grasso pollino.
Un pomeriggio estivo dell’anno domine 1545, Michele sonnecchiava sulla sua panca. Un fraticello, emaciato, pallido, denutrito, i capelli appena tosati ad aureola, passò per la piazza con il sacchettino dell’elemosine. Michele aprì gli occhi, corse verso di lui, si buttò in ginocchio, gli baciò la mano e rimase là con la faccia a terra.
Esce pazzo il signor di Nostradamo? Si chiesero i presenti. Lo spadaro venne fuori dalla fucina, il ciabattino dalla bottega, il fornaio dal forno. Ques que-ce que vous fait, monsieur de Notre Dame? Anche la vedova Ponsard scese di corsa e strattonò il marito per un braccio. Niente da fare. Michele rimaneva con la fronte incollata alla pietra stradale, mentre il fraticello, rosso di vergogna, faceva segno ai presenti che lui non ne sapeva niente.
Quindi, dopo molti minuti di imbarazzo, Michele ritornò sulla sua panca e riprese il sonno. Gli artigiani tornarono al lavoro grattandosi il capo, ed anche la vedova Ponsard si tranquillizzò, mentre il fraticello, ancora rosso come un peperone, svicolava via con il sacchettino delle elemosine vuoto. Quarant’anni dopo, nel Conclave del 1585, quello stesso fraticello, che di nome faceva Felice Peretti, venne conclamato papa per acclamazione. Prese il nome di Sisto V e fu uno dei più grandi papi della sua epoca. A lui dobbiamo ad esempio il completamento della cupola di San Pietro, l’allestimento della Cappella, detta appunto “Sistina” e la prima opera di prosciugamento delle Paludi pontine.
Abbiamo raccontato questo episodio per significare come Michele fosse rispettata Salon anche nelle sue stranezze. Quelle “bestie brutte”, dicevamo, gli volevano bene. Tutt’altro, invece, era stato il clima a corte, a Parigi, dove Michele aveva rischiato anche la pelle. Qualcuno lo aveva ritenuto responsabile, ad esempio, della tendenza agli amori non muliebri del giovane Enrico III di Valois, figlio di Caterina. Amori oggi perfettamente alla moda, ma allora ritenuti non ortodossi, anche per via della mancata discendenza. Michele venne apertamente criticato, osteggiato perfino dalla regina, e rischiò l’arresto.
Ma che c’entra? Michele il destino non lo creava mica; lo prevedeva soltanto, ammesso che gli avvenimenti umani siano determinati dal destino, come qualcuno pensa, e non, come pensano altri, dal caso e dalla volontà. E poi, se vogliamo rimanere nel campo delle preferenze sessuali del giovane Enrico, oggi, ripeto, perfettamente alla moda, ma allora poco ortodosse, la storia di Francia ne è piena. Basti pensare a Napoleone III, detto “il Piccolo” per distinguerlo dallo zio, Napoleone Bonaparte, il Grande, appunto. Bene, Napoleone III, gli amici lo chiamavano Lulù per via della sua abitudine a mettersi in crinoline, alla sera, per fare la danza del ventre, dopo avere adempito ai suoi uffici di Capo di Stato ed aver passato in rassegna l’esercito, con tanto di saluto militare e sbattere di tacchi. Anche in quel caso colpa di Nostradamo? Andiamo, via! Ma questo è un altro tema.
Sempre nel 1545, arrivò a Salon da Parigi, portato da due muli, lo scrittore, medico ed ex frate Francois de Rabelais, il quale, attraverso Michele, cercava appoggi a corte per pubblicare, contro la censura della Sorbona, il suo Terzo libro . Tra medici ci si intende. Dopo un po’ era fra i due tutto un vocìo su quali erbe fossero efficaci per quella o per quell’altra malattia. Improvvisamente però, Michele si alzò dalla sedia con gli occhi sbarrati, sudato, e cominciò a gridare: “Signor curato, non la butti la frittata dalla finestra!” La frittata? Ma quale frittata? Ma quest’è pazzo. Rabelais si alzò, ricaricò i muli e se ne tornò a Parigi.
Rabelais era uno di quei frati sanguigni, che delle convenzioni se ne fregano. Gli piaceva mangiare e bere, e le mani le metteva spesso là dove non è consentito, cioè sul didietro delle signore. Cinque anni dopo, il Venerdì santo del 1550, giornata dedicata al digiuno, Rabelais aveva fame. Cosa avreste fatto voi non lo so; lui si fece una bella frittatona con le cipolle, e si versò un buon boccalone di vino di mele. Si era appena seduto a tavola, quando scoppiò un temporale terribile, con tuoni e lampi che squassavano l’aria. Rabelais rimase con la forchetta a mezz’aria. Un ammonimento divino? Un segno dall’Alto? Per qualche istante ne fu terrorizzato, poi la sua natura sanguigna ebbe la meglio. “E che sarà mai! Tanto fracasso per una frittata?”- gridò rivolto al cielo. Poi prese il piatto e lo scaraventò dalla finestra in direzione delle nuvole. Solo più tardi si ricordò delle parole di Nostradamus, e descrisse la scena nelle sue memorie.
Vergognandomene, mi accorgo di avere ancora una volta scritto troppo. Giuro che avrei voluto finire la storia in questa puntata, ma non abbiamo raccontato tutto, quindi mi perdonerete se rimando la fine alla prossima volta. E grazie per la pazienza