Dal duello televisivo del 1960 tra Kennedy e Nixon alle dirette streaming degli incontri politici di questi giorni. Parlare avendo sempre davanti una telecamera collegata al web sembra l’ultima frontiera della comunicazione politica, all’insegna di una trasparenza che a volte rischia di sconfinare nel populismo. Ma è davvero positivo sottoporre al giudizio popolare ogni momento della vita politica? È un modo veramente democratico o, invece, rischia di essere uno strumento nelle mani di chi è maggiormente in grado di irretire le masse? Ne riflettiamo con il politologo Roberto Cartocci, docente di scienza politica all’Università di Bologna.
Lo streaming serve davvero per avvicinare i cittadini al “Palazzo”?
È un modo improprio per avvicinarli, soprattutto quando si tratta della trasmissione di trattative politiche. Ogni trattativa – per firmare una pace come per dar vita a un governo – presuppone franchezza e strategia tra le parti, con la capacità dei singoli attori di sostenere le proprie posizioni. In questi casi serve riservatezza per addivenire a un accordo che, poi, verrà spiegato pubblicamente. Lo streaming, invece, è uno spettacolo che chiama in causa un terzo attore, il pubblico.
Compromettendo la capacità delle parti di trovare un accordo…
In questo caso la comunicazione è finta. Nel colloquio tra Renzi e Grillo, quest’ultimo ha fatto uno spettacolo per i suoi sostenitori, non una trattativa.
Dalla trasmissione in diretta dei lavori parlamentari ai post e tweet durante le riunioni di partito, fino alla diretta streaming: all’apparenza sono tutti modi per rendere trasparente il “Palazzo”…
Queste ultime, però, sono operazioni di politica- spettacolo. Mentre è fisiologica la ripresa dei lavori della Camera, poiché essi hanno un valore pubblico e la diretta televisiva o radiofonica garantisce un canale d’informazione tra i deleganti – cioè gli elettori – e i delegati – gli eletti – per farsi un’idea. La direzione di partito trasmessa in streaming è una variante di quanto sopra per i simpatizzanti del partito. Sorge però il rischio che chi parla si rivolga innanzitutto ai militanti che stanno fuori e che magari costituiscono il suo bacino elettorale.
Mentre i tweet e i post sui social network?
Contribuiscono alla politica-spettacolo, fatta solo di slogan, e trovano facile sponda nei media che cavalcano l’immediatezza, la velocità. Migliaia di tweet in cui ciascuno scrive poche parole finiscono per intossicare, anziché rendere più chiaro il dibattito politico e favorire un’informazione seria e approfondita.
Dalla cronaca degli ultimi tempi vediamo scelte politiche influenzate dai media, come quando vengono pubblicate intercettazioni (uno tra tanti, il caso Cancellieri) o persino scherzi telefonici – ad esempio quello all’ex ministro Barca – che portano alla luce giudizi politici tenuti riservati. Tutto questo serve per la trasparenza?
No, non fa bene alla democrazia. Una trasparenza male intesa può produrre effetti perversi, ad esempio quando un eccesso d’intercettazioni telefoniche per un’indagine e la loro pubblicazione portano a coinvolgere persone che con quell’indagine non c’entrano nulla. Trasparenza significa avere contezza dei comportamenti individuali, serve a contrastare i conflitti d’interessi ed eventualmente accertare la dubbia moralità pubblica di una persona. Diversa è la trasparenza pruriginosa, che però viene sollecitata dai media.
In un clima che tende al populismo, come recuperare un discorso politico serio, fatto di contenuti, capace di andare al di là degli slogan?
È molto difficile: con un clima di questo genere e un pessimo rapporto tra governanti e governati tutti i populismi non possono che crescere. Si pensi, ad esempio, agli effetti devastanti che ha avuto la metafora della ‘casta’ coniata da Stella e Rizzo. Mediaticamente è servita per considerare i politici ‘altro da me’ e invocare un’assoluzione collettiva del cittadino medio, che si ritiene in diritto di rivendicare tutte le ragioni possibili, mentre tutte le colpe ricadono sulla ‘casta’.
È a rischio la democrazia?
No, la nostra è ancora oggi una democrazia. Possiamo semmai dire che è di bassa qualità, perché la classe politica non riesce a decidere, per un apparato istituzionale estremamente farraginoso, per una pubblica amministrazione pletorica e incapace di un’applicazione rapida delle norme, per una moralità pubblica degli italiani tante volte discutibile. Si tratta di trovare delle soluzioni, come una riforma istituzionale che porti a una semplificazione delle norme e dei processi decisionali. Il governo deve avere la capacità di governare, le leggi si devono fare in una Camera, il sistema elettorale dev’essere tale da permettere di sapere chi ha vinto e chi ha perso. Questi sarebbero elementi per permettere di ricostituire una democrazia di qualità.