Fa piacere, ogni tanto, avere qualche buona notizia dall’Italia: politici che sembra si diano da fare per migliorare la situazione. La bella notizia ce la dà il Maestro Luchetti durante la nostra conversazione. Comincerò dunque questo articolo, ricco di aneddoti, con delle domande che avevo posto al Maestro Luchetti durante l’ultima parte dell’intervista. Avevo chiesto cosa gli piaceva dell’Italia attuale. È stato per lui quasi naturale dire che ama le stesse cose che amava 30 anni fa. “Dell’Italia moderna ci sono poche cose che mi piacciono e che sono tutte quante legate all’ambito della creatività: dal design all’architettura, anche se è un’architettura più fatta all’estero che in Italia, alla musica, alla letteratura, al cinema, alla moda. Ci sono tanti ambiti in cui l’Italia dimostra le sue eccellenze. Anche in questo momento, nell’export del cibo, l’Italia sta portando avanti una battaglia culturale e popolare allo stesso tempo interessantissima”.

Ci stanno imitando i nostri prodotti
Ci stanno imitando moltissimo. Il come il cibo si considera parte della vita. Penso che sia un patrimonio nostro. No? La politica arranca un po’ anche se sono abbastanza contento del Governo Gentiloni perché ha approvato una riforma sul sistema audio-visivo incredibile, di portata enorme (sul cinema e sui rapporti con la televisione).

Cosa è stato approvato?
Praticamente obbliga la televisione, non solo i canali nazionali, ma anche le piattaforme online, le pay-TV, a investire sul prodotto italiano, visto che arrivano come dei buldozer e fanno terra bruciata di tutto quello che incontrano. Gli si è chiesto di partecipare alla produzione italiana. Nel giro di pochissimi anni questa legge avrà delle enormi ripercussioni sul nostro lavoro e potremo finalmente ricominciare ad avere dei budget più importanti, a fare dei film che saranno obbligati ad avere un rapporto col pubblico e quindi film buoni, migliori di quelli che facciamo adesso e questo trasformerà anche la percezione che noi stessi abbiamo dell’Italia perché il cinema è anche lo specchio di un Paese. Sono molto fiducioso sul futuro, sono insegnante di Regia alla Scuola Nazionale di Cinema e vedo una generazione nuova di autori che sta crescendo, che può fare molto, che secondo me, se verrà messa veramente nelle condizioni che questa nuova legge ci promette, può dare tantissimo al nostro cinema, rinnovandolo. Quindi non appoggiandosi alle cattive abitudini ma crearne di nuove positive.

Speriamo. In Italia però, anche se, per ipotesi del tutto teorica, ci fosse un politico di buona volontà, qualcuno penserebbe a sabotarlo
Siamo in un Paese che è sempre stato radicalizzato. Siamo molto specializzati negli scontri e quindi opposizione e governo, destra e sinistra, il sopra e il sotto, il Nord e il Sud, i Guelfi e Ghibellini…, siamo grandi specialisti di scontri, è una cosa genetica, ma anche dentro le famiglie…

Sì, adesso l’esempio lo vedremo guardando il tuo film “Mio fratello è figlio unico”. Cosa significa questo titolo?
L’aneddoto sul titolo è divertente. Il film è tratto da un romanzo di Pennacchi che si chiama “Il Fascio-comunista” che era un titolo sgradevole, non convinceva né me né gli altri scrittori. Così, un giorno, in un ufficio di produzione, il produttore disse: “Adesso faremo notte finché non usciamo con un bel titolo appetitoso”. Allora io, che avevo fretta, dovevo andare al cinema, dovevo sbrigarmi, presi il mio Ipod con la musica e dissi: “Il primo pezzo che salta fuori è il titolo del film.” E il primo pezzo fu ‘Mio fratello è figlio unico’, canzone di Rino Gaetano. Piacque a tutti. E quindi abbiamo tenuto questo titolo perché nel film c’è qualcosa che ha a che fare con una competizione tra fratelli: chi dei due è il fratello migliore? Chi è il figlio unico fra i due?

Hai nominato Antonio Pennacchi. Il suo romanzo.
Sì. C’era dentro un personaggio molto forte. Il film racconta lo scontro (anni ‘60/’70), non solo politico, tra due fratelli: Accio, ragazzo della provincia di Latina, che passa dall’estrema destra all’estrema sinistra nel corso di pochi anni e Manrico, il fratello che si batte per la propria fede politica. E mi sembrava interessante poter raccontare di quelle due anime, di quegli anni d’Italia, cioè i fascisti, i giovani fascisti del Dopoguerra e i primi rivoluzionari degli anni Settanta che poi si sono avvicinati anche a delle formazioni terroristiche. È uno scontro/confronto in un periodo di inquietudini sociali e contrasti politici. Tutto questo in tono comico, in tono realistico e in tono lieve, ma anche in certi casi duro. E questa caratteristica del romanzo mi sembrava molto interessante.

È stato difficile poi trovare una struttura per questo film?
Sì, perché il romanzo era un romanzo di memorie e quindi le memorie sono scoordinate, sono libere. E invece abbiamo trovato una struttura, abbiamo trovato la figura di questo fratello in competizione e, insomma… abbiamo cercato di stringere questo romanzo di 700 pagine e farne un film di un’ora e mezzo.

Avete avuto comunque delle incomprensioni con Pennacchi
Sí, sì. Delle grandi incomprensioni. Non siamo riusciti a stare vicini. Ma credo che sia positiva questa cosa quando si fa un film tratto da un romanzo. A parte qualche eccezione penso che avere il romanziere accanto per un regista sia molto pericoloso. Io avevo fatto un film tratto da “I piccoli maestri” di Meneghello, grandissimo scrittore e amico. Durante le riprese del film l’ho voluto accanto a me, ma questa presenza è stata per me molto ingombrante perché il film è il punto di vista di una persona sola. Non può essere di due. È impossibile mettersi d’accordo su una cosa, in quel caso tratta dalla sua vita. Non era possibile ricostruire la sua vita. E così nel caso di Pennacchi, ho deciso di ricostruire la vita di Pennacchi ma senza chiedere a lui. Si è arrabbiato moltissimo. Alla fine però il film gli piacque molto anche se gli avevamo tradito il romanzo.

Elio Germano è uno dei tuoi attori preferiti
Sì. Con Elio abbiamo una qualche affinità nel profondo che non so definire. Una volta una persona mi ha detto: “Sembrate fratelli”. Evidentemente è qualcosa di fondante che veniamo tutti e due dalla media borghesia romana, che abbiamo una passione politica, una passione per l’arte e che ci piacerebbe raccontare e indagare sulle classi popolari, frequentarle, viverci di più dentro e poi c’è qualcosa di non spiegabile, certe volte ci sono delle alchimie che si creano, come negli innamoramenti.

Torniamo indietro nel tempo. Tu sei cresciuto alla Gaumont
La Gaumont era la più grande casa di produzione di film francese per decenni. La Gaumont aprì in Italia una filiale presieduta da Renzo Rossellini e questa filiale italiana aprì una scuola di cinema dove io ho imparato il mestiere. È durata solo 3 o 4 anni e per fortuna ho potuto approfittarne.

Raccontami quel periodo
Noi lavoravamo a Cinecittà. Cinecittà era in assoluta decadenza in quell’epoca (primi anni Ottanta). Era già semi-abbandonata. Presero un teatro di posa, ci misero dentro con un po’ di strumentazione tecnica e ci dissero: “Imparate a fare cinema”. E siccome c’erano spesso dei registi che giravano film nei teatri accanto, venivano a Cinecittà per questioni di lavoro, noi li “catturavamo”, li portavamo dentro i nostri teatri, ci facevamo spiegare il mestiere. Sembrava un cascame della cultura alternativa degli anni Settanta questa scuola. Molto originale e allo stesso tempo ci ha dato la possibilità di stare vicino a tanti artisti.

Com’è oggi Cinecittà?
Cinecittà oggi ospita molta televisione, molte serie televisive. Ospita poco cinema anche perché è troppo costoso per girarci dei film italiani e ogni tanto ospita televisione e cinema internazionali.

Potrebbero abbassare i prezzi
Cinecittà è stata pensata per un tipo di cinema che oggi non esiste più. Un cinema ricchissimo che oggi non viene più fatto in Italia.

Qual è stato il film che ti ha lanciato tra i grandi?
Forse il “Il Portaborse”.

Con interprete Nanni Moretti. È stato importante Moretti nella tua vita creativa?
Sì, perché Nanni ha prodotto il mio 1° e il mio 3° film. “Il portaborse” e “Domani accadrà”. Io sono stato suo aiuto regista per “La messa è finita” e “Bianca”. È nato un sodalizio professionale che poi si è concluso appunto con questo film.

Tu partecipi spesso a festival internazionali, vai spesso a Cannes, hai vinto dei premi… e Venezia?
A Venezia sono stato solo un paio di volte.

Quando gli ricordo che Venezia è il 1°Festival del Cinema al mondo, nato nel lontano 1932, Luchetti mi racconta un episodio avvenuto nel periodo in cui il festival era agli albori
Non tutti sanno che l’invasione della Polonia da parte dei Nazisti fu dichiarata da Göbbels durante una proiezione al Festival di Venezia. Göbbels era a Venezia con tutti i gerarchi in parata, in smoking bianco e fu interrotta la proiezione per dare questa notizia che sfociò in uno scrosciante applauso. Ritornando a noi, diciamo che è un festival di cui noi Italiani abbiamo il terrore. Perché Venezia, ci sono stati degli anni in cui ha dimostrato una fatica nei confronti del cinema italiano. Evidentemente perché c’è troppo prodotto italiano e perché poi è la sede naturale per il cinema italiano. Però noi siamo a volte esterofili,a volte i film italiani non sono sempre di primissima qualità. Fatto sta che a volte soffriamo un po’ a Venezia, sembra di essere di troppo.

È faticoso fare un film?
Sì. Quando ho fatto il mio primo film avevo 26/27 anni ed ero stanchissimo. Pensavo che non mi sarei più ripreso. Incontrai Bernardo Bertolucci ad una premiazione. Aveva appena finito “L’Ultimo imperatore”, aveva venti anni di più ed era fresco come una rosa. Gli ho chiesto. “Scusa, spiegami come si fa a sopravvivere facendo questo mestiere perché io non lo so”. E lui mi diede un consiglio che mi son sempre portato dietro: “Quando tu giri un film non sei strappato alla vita, ai tuoi affetti, alla vita quotidiana. Il film è la tua vita.” E quello mi ha aiutato istantaneamente a sopportare.

Qual è il film al quale sei più legato, oltre a “Mio fratello è figlio unico”?
Quando mi hanno chiesto di scegliere un film per il Festival di Francoforte, ho scelto “Mio fratello è figlio unico” perché so che ha un positivo impatto sul pubblico e che è un film molto caldo. C’è però un altro film, “Anni felici”, meno fortunato, che ho girato tre anni dopo questo. È una storia sempre degli anni Settanta però dal punto di vista delle avanguardie artistiche romane di cui mio padre faceva parte, era uno scultore. E quindi lì racconto la storia della mia famiglia dentro il mondo delle avanguardie artistiche di quegli anni. E lo trovo un film affettuoso.

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