Nella foto: Dante. Foto di ©Daniele Messina

È noto che a metà dell’ottocento il pastore luterano Karl Göschel – di cui il nostro De Sanctis sarà un devoto lettore, su segnalazione del critico Giovanni Morelli, che nel 1848 sedeva nel caffè letterario dei Brentano sperando libertà dall’ambiguo Re di Prussia Federico Guglielmo IV – non solo aveva alimentato una persistente campagna di interventi a favore del pensiero del filosofo Hegel; ma anche si era prodigato nel risvegliare nella cultura romantica la figura di Dante, diviso dalle polemiche culturali fra i primi romantici, con Wilhelm von Schlegel in testa. Invero le mature riflessioni neoclassiche di Goethe poco prima di morire avevano implicitamente richiamato il Dante del “Paradiso” nelle rime conclusive della seconda parte del Faust. Ma il solidarismo cattolico di Ozanam e il pensiero socialista di Marx non davano tregua al diffuso perbenismo della piccola borghesia conservatrice agraria della Germania filo prussiana.

Sappiamo anche che il neoclassicismo goethiano decadde con la morte del Maestro e che il conformismo culturale reazionario durò per buona parte del secolo anche nella Germania renana. Nel Sud bavarese però fin dal 1860 maturò un certo sviluppo della scuola estetica hegeliana che ebbe due guide filosofiche, il menzionato Göschel e il Witte, rivolte ad alimentare lo studio del Dante poeta, mitico genio poetico pari a Omero e a Shakespeare, che il sodale Carlyle aveva rinnovellato nei salotti liberali inglesi negli anni ‘40 dello stesso secolo. Nel 1865 si ebbe infatti la fondazione della società storica “Dante Alighieri” (Deutsche Dante-Gesellschaft).

Tuttavia l’avvento al governo del protestante Bismarck, tutto votato a rinsaldare una cultura autoritaria refrattaria allo spirito liberale e democratico – cui il centro cattolico sembrava aderire contraddittoriamente in nome del poeta fiorentino, ora assurto a difensore della libertà di pensiero – portò allo scontro politico col Vaticano di Pio IX. Il famoso corpo di leggi reazionarie anticattoliche e anti concordatario – il Kulturkampf del 1871 – portò all’obbligo dell’assenso governativo sulla nomina delle cariche vescovili. Ciò generò a cascata il passaggio coatto della biblioteca della “Dante” all’Università di Lipsia e la chiusura dell’Annuario della Società.

Il militarismo guerrafondaio; le restrizioni alla stampa cattolica e progressista; ma anche lo sviluppo economico del Paese connesso al processo di unificazione; resero alla Germania un lungo periodo di miglioramento economico fino alla fine del secolo e nei primi anni del nuovo. Il Congresso di Berlino del 1878, con Bismarck ago della bilancia diplomatica nell’Europa colonialista anglo-francese, limitò il diffuso astio culturale che circondava il Primo Impero tedesco. Il ritorno al classicismo goethiano e la domanda di rinnovamento sociale della statica società del c.d. Biedermeier, ebbe in Nietzsche e poi nell’Espressionismo notissimi fautori del mondo di lingua tedesca. E Dante Alighieri non poteva mancare nella simbologia della rivoluzione culturale che Wagner e Nietzsche aprirono alla fine del ‘800, quando la “Commedia” nella sua interezza riapparve come simbolo di suprema ode a difesa di ogni fede – anche laica! – fino ad allora repressa.

Il motto del filologo del “superuomo” su Dante, espresso nel “Crepuscolo degli Dei”, la iena che poeta fra le tombe!, esprimeva icasticamente il ruolo dell’uomo che si fa adulto e che quindi ricordava la fierezza della Ragione – anche secondo il pensiero del vecchio Vico – dell’Ulisse dantesco, dove Conoscenza e Spirito si mediavano nel riconoscimento del limite umano e nella relativa azione concreta del cristiano medievale, operazione ideologica che comportava nel Nietzsche il ritorno al secondo “Faust” di Goethe e alla scelta universale da questi operato nel suo progetto di letteratura mondiale.

La umanizzazione di Dio e la pari divinizzazione dell’Uomo – vale a dire l’origine dell’idea di Espressionismo nell’arte e nella ricerca anche scientifica – da Baudelaire a Gogol, da Munch a T.S. Eliot – portarono a interpretare Dante come un secondo Lucrezio e fare così dire di Dante “Un teologo” (Ozanam), ovvero a un maestro di pathos, specialmente quando Ingres e Dorè daranno nel secondo ottocento una iconologia insuperabile nelle arti visive. Anzi, la ridimensione umana della poesia di Dante fuori dalla vesti di storico e la discesa nel reale quotidiano, trasmigrava nello storico e sociologo Ernst Robert Curtius, un critico letterario tedesco che riaprì il discorso goethiano di una letteratura europea unitaria, frutto della cultura latina.

Come ogni docente – e lui lo era nel ruolo di filologo romanista – nel primo dopoguerra fra Bonn, Marburg e Heidelberg, si pose il problema pratico della via didattica da scegliere per conoscere l’arcipelago dantesco senza sbattere fra lo “scilla” romantico e il “Cariddi” storicista, cioè la visione estetizzante neoclassica puramente legata alla struttura estetica erudita. Un campo di lettura non più ristretto al Medio Evo e al mondo antico fino all’età contemporanea.

Curtius, facendo tesoro dell’analisi storica dei cultori di S. Tommaso, per esempio Étienne Gilson, illuminava la forma lirica, conferendo ai personaggi un significato simbolico universale. Percorso che un suo collega e successore a Marburg nel 1929, porterà alle estreme conseguenze, adottando un metodo di lettura e comparazione fra letterature originali ancora insuperato.

Se Dante e Shakespeare sono stati definiti “gli eroi” della poesia occidentale, potremmo ripeterlo per Erich Auerbach, l’Autore di cui ora parliamo, tanto è il volume di discussioni e di critiche, positive e non, che ancora oggi emergono nel panorama mondiale, non solo sul suo “Dante”, ma anche in armonia al collaudato pensiero di Weltliteratur, tema posto ma non risolto dal Goethe alla fine della sua parabola. Auerbach, dopo aver insegnato a Marburg, per questioni razziali dovette emigrare prima a Istanbul (1936) e poi in America, a Yale, dove morì nel 1957.

Il suo pensiero critico cominciò con un’immersione nell’ottica romantica e idealista, riprendendo nel 1924 – non appena laureato in Giurisprudenza a Berlino fra i clamori espressionisti e le barricate spartachiste – il Vico, traducendo ”La scienza nuova” in tedesco. Sentiva da giovane – era nato nel 1892 – il conflitto culturale e religioso sotteso alle polemiche sulla concezione allegorica persistente di un saggio – non solo storicista – di un critico anche legato a Nietzsche, Karl Vossler, cioè “Die Göttliche Komödie” (1909). Principalmente, nelle premesse alla traduzione, Auerbach – come dirà nel secondo dopoguerra Fritz Strich per Goethe – sollevò la domanda di una coscienza letteraria unica in Europa, prendendo da Curtius lo spirito tomista, che aveva realizzato la sintesi di mille anni di storia. Aveva ritrovato nella “ Scienza nova” un Dante che aveva inquadrato una “moderna concezione della poesia e della storia”; che la “Commedia era la storia dei tempi barbari d’Italia… un raro esempio di sublime poeta… fonte di bellissimi parlari toscani”. Auerbach rilevava che le multiformi figure allegoriche raccolte dal Curtius rispecchierebbero l’idea tomista – e medievale – secondo cui finalmente nell’aldilà l’uomo raggiungerà se stesso. Un viaggio terreno e ultra quotidiano verso Dio, sul modello del viaggio biblico, di cui egli era stato fervente credente da ebreo sefardita molto vicino all’ethos cristiano. Era la dinamica figurale, dove secondo Auerbach il lettore avrebbe ritrovato un brandello di fatto storico che per Dante si illumina nel fine della salute eterna. E in ciò si starebbe in una realtà terrena protesa al Paradiso o all’Inferno o al Purgatorio. Diversamente per esempio da Virgilio, dove la separazione dei due piani – vita terrena e vita delle ombre – solo la seconda è apparentemente quella delle ombre, divenendo piuttosto quella vera la prima, l’unica via percorribile dall’Uomo. Di qui, la grandezza stilistica del Vate fiorentino: mentre la rappresentazione storica suggestiona l’ascoltatore; l’ordine divino – sia nell”Inferno” con la legge del contrappasso; sia nel “Paradiso” con la visione finale dell’Empireo; annullerebbe ogni velleità umana e porrebbe l’Uomo dinanzi a se stesso, come direbbe Heidegger, altro fine lettore e interprete di Dante.

Come vediamo è una profonda mediazione fra l’astratto allegorismo e il mitico simbolismo paganeggiante di George, poeta millenaristico che negli anni ‘20 aveva riaperto le pagine di Dante, negando però ogni valore allo spirito doloroso e reale, diremmo esistenziale, dell’uomo quotidiano. La scelta mitica portava all’indebolimento etico; la rilevanza storica escludeva Dio. La fine escatologica e la condizione eterna salvava l’essere nella storia e lo stabilizzava per sempre. Emerse così l’acuta creatività del verbo di Dante, sciolto dai legami latini del passato e annodata a uno stile nuovo, come dimostrò Dante nel canto X dell’Inferno, quando gli incontri con Farinata e Cavalcante vengono aperti, interrotti e chiusi da ”da me stesso non vegno…” “Volgiti : che fai?” “allora accadde”.. espressioni di censura che segnano il corso della vita terrena in una prospettiva celeste. I ”vari scritti danteschi”, fra cui Figura del 1944 – uscito in italiano soltanto nel 1963 – risentirono fortemente dei rapporti fra opera d’arte, tradizione culturale e situazione sociale, visto che il periodo universitario a Marburg coincise con i fermenti culturali coevi della Repubblica di Weimar. Ma il suo pensiero trascendeva a confini ben più ampi.

Fuggito in Turchia, privo di fonti che potessero corroborare il suo metodo storico e stilistico, azzardò una legge: osservando le figure dantesche e dando ad esse spazio più ristretto nella loro dimensione storica, aumentò cantica dopo cantica un aspetto meno criptico, proiettandosi in una altra via, quasi un escapismo in un futuro, con una presenza di fede nell’altro mondo. Non si ammetteva così un identico fenomeno letterario e linguistico per tutte le letterature europee? Non era questo il contenuto occulto del piano goethiano di una letteratura mondiale, svelato negli ultimi scritti e segnatamente legate al “Divano occidentale e orientale?” Fu questo il progetto di “Mimesis” (1940). Fu quasi un fumetto iconologico che aveva ripreso dall’amico e insigne critico d’arte Panofsky; ma che ambedue avevano ritrovato negli antichi manoscritti di commento alla “Divina Commedia” e alle opere analoghe più antiche, depositate nei monasteri benedettini tardo-medievali, già studiati da Dante e dal suo contemporaneo Cino da Pistoia. Percorsi che unirono in un rapporto di “amorosi sensi” tanti intellettuali europei nel secondo dopoguerra, in una corrispondenza attuativa dell’idea seducente meno lontana da una letteratura universale oggi dominante nella storia della critica dantesca.

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