Nella foto: Louise Otto-Peters (Meißen 26.03.1819 - Lipsia 13.03.1895) foto ©Wikipedia

Il personaggio e il suo messaggio

La recente pubblicazione di una raccolta di vari saggi biografici, fra cui una su Louise Otto-Peters, connessa alla riproposizione di un film di Carl Balhaus del 1958, “Nur eine Frau”, della critica cinematografica tedesca Jana Mikote, riapre la discussione storica su una giornalista romantica e radicale, Louise Otto, sposata al giovane marxista August Peters – uno dei primi martiri socialisti legati al filosofo Karl Marx – morto di mal di cuore dopo essere stato incarcerato per più di 10 anni nelle carceri di Lipsia per le sue idee rivoluzionarie. Ma è di sua moglie Louise Otto che dobbiamo parlare. Giornalista e scrittrice radicale, deputata alla Costituente di Francoforte nel 1848, partigiana femminista sulle barricate a Dresda nel 1849, ideologa e non solo, una suffragetta socialista fino al 1895, anno della sua morte. Nata nella città industriale di Meißen in Sassonia nel 1819, ancora famosa oggi per la produzione di porcellana fin dai tempi di Federico il Grande, figlia di un noto avvocato e giornalista, da scrittrice difese i diritti delle lavoratrici già nelle fabbriche della sua città. Orfana di entrambi i genitori e priva di una sorella maggiore, per tradizione dovette badare alle due sorelle minori gestendo un piccolo lascito di famiglia e lavorando come tessitrice nelle vicine imprese tessili in espansione. Un giovane liberale, Karl Albrecht, narra che quando la conobbe a 23 anni, leggeva la sera sotto un pergolato in campagna, la “Fenomenologia dello spirito” di Hegel, accoccolata a terra come una gatta, non badando al giovane e piuttosto seccata per la sua presenza, tanto che con veemenza gli disse:

“Che piacere mi dà questa lettura, rispetto alle tue chiacchiere….. quanto lavoro operativo ci darà questo pensatore… perché non lo studiamo insieme?”

Qualche anno dopo, fra il 1843 e il 1846, pubblicò due romanzi sociali, “Ludwig der Kellner” e “Schloß und Fabrik”, dove sviluppò la triste vita dei lavoratori delle industrie Sassoni, specialmente le tessitrici che nella vicina Slesia stavano ispirando le possenti parole di Heine e la famosa rivolta del 1846. Trasferitasi a Oedern per aiutare le sorelle minori e per permettere una loro educazione scolastica che le sottraesse alla povertà e alla prostituzione, collaborò con lo pseudonimo di “Stella”, al giornale radicale “la voce Patriottica della Sassonia”, dove iniziò la sua crociata politica di uguaglianza e di indipendenza femminile. “Otto Stein”, il suo nuovo pseudonimo, non si vergognò di duellare con la voce radicale più nota nelle file democratiche, Robert Blum, il più noto martire della repressione austro-ungarica nella Vienna dal 1848. A Lui che l’aveva chiamata, con una certa ironia, “L’usignolo del popolo; Louise Otto – sposata col marxista August Peters nei giorni delle barricate a Dresda nel 1849 – oppose il suo credo femminista ormai consolidato:

“Il ruolo delle donne non sarà più un effetto della futura Costituzione dello Stato; ma un dovere assoluto, che discende dal verbo di Dio della Genesi! Mai più la donna sarà la bambola, o la pappagallina dell’Uomo!… Oh uomini, non dovrete e mai più sottovalutare il giusto posto della donna nella società… Oh donne, voi sarete vive se servirete nel vostro cuore la vostra prima natura. La dovrete annunziare e realizzare ogni giorno anche a costo dei vostri privilegi… ché altrimenti sarete vittime della schiavitù familiare e della prostituzione!”.

Lo stesso Blum – che ben presto capì il valore innovativo del suo pensiero, favorì la sua elezione alla Dieta Costituzionale di Francoforte nel 1848. Per ringraziamento, Louise in modo sprezzante gli urlò in faccia:

“A te che mi giudichi una donnetta di poco conto, una zitella di 30 anni, che ti senti figlio del Cielo e angelo del Progresso; io ti dico da donna minuta che sono, non una Valchiria, che tu altro non sei che un uomo, mio pari!!”.

Blum, turbato da quella piccola “Maria Stuarda”, prima di partire per Vienna dove morì poco dopo fucilato, le scrisse una breve ode, forse per riparare le sue note d’ironia per quella ragazzetta che aveva osato viaggiare da sola per la Germania, quando da inviata speciale aveva descritto le condizioni delle operaie e delle contadine, ma anche delle borghesi, nelle città popolose sul Reno e della Baviera, dove i migliori lavori erano quelle di raccoglitrici, braccianti tessitrici e infermiere, mentre già le governanti apparivano mestieri “nobili”, per non parlare delle donne orfane e vedove facili prede della prostituzione.

Dopo le barricate di Dresda e dopo l’incarceramento del marito August Peters, Louise ripiegò nel suo terreno di giornalista radicale, anche se non aveva mancato di sparare sui prussiani a Dresda accanto a Bakunin e al giovane Wagner. Riparata a Meißen, fondò la “Gazzetta delle donne”, giornale che divenne la bandiera del primo suffraggettismo mondiale, dove nel frattempo proclamava:

“in nome della Morale cristiana e dell’Umanità, ma anche della Patria, sia dato sempre lavoro alle donne!”.

Nasceva così il primo presidio sindacale sul mercato del lavoro femminile. In quella sede, la promozione e la fede nella donna, nondimeno madre della famiglia in senso cristiano, troverà fonte primaria, pur senza assurgere agli estremismi libertari di una sua rivale contemporanea, Louise Aston, che invece incarnò il modello della femminista più libertaria, dove il matrimonio – di per sè mai contestato dalla Otto Peters – veniva negato in modo assoluto, tanto da influenzare positivamente Ibsen e Shaw, mentre quello della Otto Peters diverrà esemplare per Tolstoj e Verga. Il rifiuto dell’ateismo e la contemporanea democraticità con il senso della famiglia protestante, fecero crescere la sua fama di socialista nella Germania imperiale di Bismarck. Malgrado Federico Guglielmo di Prussia nel 1853 avesse fatto chiudere il “Frauen-Zeitung”, la Otto Peters, con il sodale August Schmidt, fondò la “der Allgemeiner Deutscher Frauenverein”, associazione delle donne tedesche, il primo nucleo di quell’elettorato culturale cristiano sociale che costituirà nel ‘900 il blocco democratico popolare nella Germania di Adenaurer, Kohl e della Merkel. Nondimeno, l’ultima produzione letteraria la vedrà protagonista di poesie legate alla vita di gioventù, “Mein Lebensgang” (1893), dove rilesse i grandi della Germania, Goethe, Kant, Hegel, alla luce della donna germanica, quando diceva come Lei stessa, da giovane tessitrice di giorno, e da “madre di famiglia”, la sera, leggeva Heine, affermando recisamente che la “cultura tedesca respirava al femminile”, fin dalle favole dei Grimm, oppure nelle fantasie di Bettina von Arnim, fino a Lou von Salomé, di cui non condivideva lo stile di vita, ma ne rispettava lo spirito di libertà. Morì d’infarto a 76 anni mentre correggeva gli articoli del suo giornale, leggendo con soddisfazione un libretto di una italiana che ammirava, Matilde Serao, il cui spirito combattivo le somigliava non poco (per la cronaca era “Il ventre di Napoli”).

Il cinema tedesco nella DDR: dal mito alla realtà.

Dimenticata per quasi un secolo, dopo l’agiografia nazista e comunista, in cui la figura della donna era stata idealizzata negli opposti estremisti della “madre -Patria”, per esaltare di quelle dittature un modello di fatto solo utilitaristico e commerciale, fra capitalismo borghese guerrafondaio e masse popolari, dove la posizione della donna nella famiglia rimaneva sostanzialmente sottosviluppata, fino ad essere mera fattrice di uomini da mandare in fabbrica o in guerra; la donna tedesca del dopoguerra fu sostanzialmente libera nella parentesi di Weimar, dove il modello autonomo della Aston era temporaneamente prevalso, senza però attecchire nel tessuto sociale tedesco. Malgrado la svolta socialista, “il political correct” restava solidamente ancorato all’imperialismo luterano, refrattario alla piena parità dei sessi.

Il pensiero della Otto Peters, dopo la sua morte nel 1895, solo nel 1918 consentì di essere operativo, quando alla fine della guerra europea le donne tedesche finalmente ebbero il diritto al voto. Poi, dopo la parentesi weimariana, ritornò con durezza la tradizione Guglielmina in veste nazista e poi il regime comunista nella DDR la perpetuò, malgrado la propaganda socialista orchestrata da Ulbricht avesse canalizzato la cultura democratica su posizioni che di fatto mantenevano nella donna il “genio della casa”, malgrado la reazione femminista di un Brecht ne avesse ridicolizzato la validità morale in una delle sue opere non minori scritte in esilio – “Madre coraggio e i suoi figli” (1939) – peraltro già esposto in un libretto all’epoca di Weimar, “Il libro delle devozioni domestiche” (1927). L’operazione politica di Ulbricht, rispetto al cinema di ispirazione antinazista, fu quella di creare una casa di produzione cinematografica di Stato – la c.d. DEFA – dove si producevano film di storia di stampo agiografico e biografico che esaltassero i profili del socialismo nazionale. Frutto di quel progetto propagandistico fu il film sul segretario politico comunista degli anni ‘20, “Ernst Thälmann – Sohn seiner Klasse” del 1954, diretto dal solidale Kurt Maetzig. Pari operazione fu ripetuta da Carl Balhaus con il suo film biografico, “Nur eine Frau”, (1958), proprio sulla Otto Peters. Quando però il Balhaus pensò bene di uscire dalla strettoie del mito e di rappresentare il moralismo sociale della Germania Democratica – attraverso la realtà contemporanea, girando, “Ein Mädchen von 16 ½”, di qualche mese più tardi – l’opinione del governo mutò. La censura politica non poteva sopportare che le giovani donne osassero liberarsi dall’oppressione maschile socialista, che aveva rimosso gli schemi anticonformisti ritornando all’epoca di Weimar. Il 6-3- del 1958 usciva la biografia di una mitica protofemmista, ma qualche mese dopo Balhaus dirigeva “una ragazza di 16 anni”, la storia di una ragazza alla ricerca di un posto nella società e alla conquista della libertà personale, ma che passava da un letto all’altro, non più dal ricco industriale borghese, ma del caporeparto proletario. Quasi un doppione anticipato delle protagoniste italiane di Antonio Pietrangeli, che per esempio con “La Parmigiana” del 1963 fecero scandalo nella società del boom economico. Il passaggio reale dal cinema di propaganda al cinema reale, dove i valori morali socialisti diventavano viventi e per niente sotterranei, spinsero il governo comunista a mettere il veto a Balhaus, costretto a riciclarsi in un genere scacciapensieri, il “giallo”, quasi per nascondere il marcio che si era voluto estirpare, ma che continuava a esistere. Ci vorrà tutta la “nostalgia” di un “Good bye Lenin!” del 2003, a cancellare tutte le ambiguità artistiche del regime comunista, ormai approdato alla democrazia occidentale dopo l’unificazione delle due Germanie nel 1989. Da qui occorrerà ripartire per ricostruire la storia delle avanguardie femministe in Germania come in Italia, proprio dalla Otto Peters e dalla coeva Karolin von Perin, fino alle nostre Matilde Serao e Teresa Noce, per dare voce a chi ancora oggi stenta a parlare.

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