Allora come oggi, il trauma del profugo

Subito dopo Caporetto, l’11 novembre, quella “fatal domenica”, giunse improvviso l’ordine di sgombero immediato per tutti gli abitanti dei paesi lungo il Piave, divenuto la nuova linea del fronte. Per i parrocchiani dei SS. Angeli, paese in cima al Montello, ordine di raduno in chiesa. “Alle ore 2 e mezzo, dopo aver sofferto quanto or non licet prodere, partii senza bisaccia”, racconta il parroco don Marco Dal Molin, tra “il crepitìo delle mitragliatrici sul Piave ed il tuonar del cannone a Vidor, alla Priula, per vie fangose. Arrivo a Selva del Montello, dinanzi alla chiesa. Mio Dio! Quale confusione, parapiglia, via vai! La chiesa è zeppa di gente… urge sfollare… cerco il Comando dei Carabinieri… ottengo 4 camion… i più deboli salgono in camion… verso Volpago, vi salgo io pure. Incontriamo la lunga, penosa, straziante processione… le donne coi piccoli al collo, con tutto quello che possedevano stretto intorno a sé.

Alla stazione di Castelfranco si trasborda su carrozzoni di 4ª classe. Alle ore 5 del 12 novembre si arriva a Padova. E si riparte la notte… Bologna, Ancona, Termoli. Molte famiglie sono smembrate, con destinazioni le più diverse. La quasi totalità degli abitanti del paese finisce al sud, in provincia di Avellino, ma alcune famiglie vanno in Puglia, altre in Basilicata e Calabria. Il lungo viaggio di trasferimento si conclude il 18 novembre a Quadrelle, un piccolo paese a 23 km da Avellino”.

È l’odissea della popolazione di tanti paesi della destra Piave, sgombrati in fretta e furia a metà novembre. Chi può cerca di sottrarsi a quello sgombero forzato e cerca rifugio nei paesi a ridosso della linea avanzata. A migliaia si riversano nelle vicine retrovie, a Vedelago, ad Istrana ed in tutta la Castellana e la Pedemontana.

Sorge un Patronato presso ogni Comune che ospita esuli, con il compito di provvedere ai primi generi di conforto e ad alloggi di fortuna. A Montebelluna e nei paesi vicini vengono aperte cucine per i profughi e per i poveri.

L’eccessivo affollamento, riconosce il Prefetto, pone problemi di “promiscuità di famiglie e di sessi… di moralità, di umanità e di igiene”. Si raccomanda di preparare “un locale (una stanza a due letti)… dove le donne in imminenza del parto possano trovare adeguata assistenza ostetrica” e si sollecita la richiesta di “manufatti di lana e cotone per uso personale”.

Nessuno conosce bene l’entità del fenomeno, anche perché lo stesso Ministero dell’Interno, per evitare eccessivi allarmi, aveva vietato fin dal 29 ottobre la stampa di notizie riguardanti il numero e la destinazione dei profughi.

Si ricorre ai Parroci ed ai Sindaci per cercare di gestire il flusso a livello locale e, per governare le tradotte, indispensabili per sfollare i tanti che non trovano ospitalità nei paesi vicini, si nominano dei Commissari Prefettizi, di solito i preti più giovani. Per migliaia e migliaia di persone (50.000 dalla provincia di Treviso) inizia una vera e propria odissea. Così la descrive Paolo Viganò, proprietario di un grande cotonificio a Castelfranco:

“Se potessi essere un Manzoni per descrivere le scene strazianti, i patimenti, i dolori della povera gente, che, costretta a fuggire, lascia la casa, i beni, i parenti infermi, i genitori vecchi per non rivederli forse mai più; i pianti dei bambini, le grida di disperazione di persone alla ricerca dei loro cari sperduti! Strazi che continuano per giorni, perché le strade ingombre impediscono di proseguire la fuga. Viene la notte, piove… manca ogni alimento! Tutti i vagoni e persino i carri merci sono stipati di profughi… in molti compartimenti si trovano dei malati gravi ed a volte anche qualche cadavere! Lo strazio di un esercito disfatto non è così impressionante, quanto vedere un popolo fuggente e sentire i lamenti, i pianti, le grida di donne, fanciulli e vecchi”.

Verso l’ignoto

Don Antonio Dal Col, cappellano di Montebelluna, viene nominato Commissario Prefettizio per Vedelago e dintorni ed incaricato di accompagnare un convoglio di un migliaio di sfollati dalla stazione di Fanzolo verso Ravenna e poi… chissà! Viveri fino a Ravenna: pane, carne e fichi secchi. “Scene commoventi e dolorose; poveri fratelli nostri”, commenta nel suo diario. “Scene di dolore, pianti, chi vuol fuggire, chi vuol rimanere e nascondersi”. Regnano la confusione e la disorganizzazione. “Alle due di notte siamo a Ravenna. Scendo, trovo l’incaricato dell’assistenza al convoglio che mi dà la destinazione definitiva: Campobasso. I profughi hanno fame. Siamo ad Ancona alle nove del mattino. Vado alla ricerca di un po’ di vitto”.

Dopo un prolungato contrasto con il capostazione, che vuol far ripartire subito il treno, don Antonio riesce a raccogliere un po’ di latte ed uova. Ripartono ed a sera sono a Termoli, dove sostano prima di riprendere il viaggio verso Campobasso.

“Prima di addormentarmi sento cantare: “Santa Dei Genetrix, ora pro nobis… santa Virgo virginum, ora pro nobis…”. Che la Madonna ci protegga, poveri fratelli! Finalmente di primo mattino arriviamo a Campobasso, dove ci attende il Delegato con quattro guardie. Mi dà il nome di sei paesi dove dirottare i profughi. Ottengo che quelli dello stesso paese vadano nella stessa località. Faccio scendere quelli di Ciano con un po’ da mangiare e poi li carico in carretti preparati per loro. Do loro medaglie, dottrina, qualche cartolina di Montebelluna, auguro loro buona permanenza. Qualche lacrima mia e loro… e partono”.

Così fa con gli altri. “Iddio vi benedica, vi accompagni e vi faccia tornare presto. Di lontano qualche fazzoletto bianco sventola ancora. Io mi volto piangendo”.

Non contento don Antonio vuole far visita ad altri profughi che erano stati scaricati in precedenza in un paese vicino, ad un’ora e mezza di corriera. “Posizioni incantevoli, poetiche, lontane dal rumore della città, ove nulla si sa della guerra e del mondo”. Ma anche tanta miseria e sporcizia. Eppure certi paesi del Trevigiano non erano certo modelli di igiene e di pulizia. Niente in confronto! Il sacerdote viene in pochi minuti circondato da 300 profughi in festa e dalla gente del paese.

“Sior capeàn”, dice un profugo dalla barba bianca e veneranda, “el ze stato un tradimento ‘sto qua, védeo dove che i me ga confinà… Va ben sporchi, ma fa questi no ghi n’è altri!”.

Il reverendo racconta che in effetti le case del paese sono tutte addossate, le strade strette, dove la gente getta tutte le immondizie, che emanano un fetore insopportabile, anche perché acqua non ce n’è, è raccolta in cisterne giù nella valle. E l’incontro con il Parroco non può che confermare le difficoltà.

“Ha già passato i settanta, buono, affabile, ma sporco, da dovergli stare lontano sempre qualche metro. La canonica si compone di un acquaio come ingresso e da una stanza che serve per mangiare, dormire, scrivere. Un letto che non avrei toccato nemmeno colla forca e sotto il letto un vaso quasi pieno…”. E don Antonio continua a descrivere la miseria di quella canonica e di quel paese, che avrebbe dovuto accogliere chi?! Ma chi aveva deciso quelle destinazioni!

Il Cappellano è costernato ed addolorato. Si limita ad una conclusione: “L’Italia vuol portare la civiltà in Tripolitania e vuole nuove terre! Per carità! Andiamo invece nei nostri paesi e territori che sono ancora allo stato semibarbaro sotto ogni aspetto!”.

La dolorosa odissea dei profughi veneti doveva attendere la fine della guerra per giungere alla conclusione e, per tanti di loro, trovare al ritorno nuovi lutti tra i familiari al fronte e la casa ed il paese ridotti in macerie. Eppure hanno avuto la forza ed il coraggio di ricominciare tutto da capo.

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