Nella multiforme quanto criticata opera del premio Nobel per la letteratura Peter Handke, scrittore, saggista, sceneggiatore, commediografo, spicca soprattutto la poesia e in particolare quella di natura filosofica, specie di natura pedagogica. Emerge soprattutto la nota poesia “Elogio dell’infanzia”, una delle colonne portanti del film capolavoro “Il cielo sopra Berlino”, scritto a quattro mani col l’amico regista Wim Wenders, poi litigatosi con Handke per le note vicende del favore che il nobel austriaco ha più volte mostrato per lo stragista Milošević durante le guerre balcaniche degli anni ‘90.

Ora, “Il canto dell’infanzia felice”,nelle sue quattro strofe, ha nell’incipit decisivo per la sua interpretazione, quando ero bambino, la presenza spirituale dell’infanzia nella nostra esistenza. Scelta che Handke non solo derivò dal suo più illustre connazionale – Rainer Maria Rilke, con le sue poesie di Duino del 1923 – ma anche dalle posizioni della cultura del’epoca, dove le reazioni al positivismo di inizio ‘900 possono ben equipararsi alla ricerca di un suo senso di interiorità oggi ancora presente, dopo l’ondata di superficiale umanesimo fondata sull’homo economicus globalizzato, piuttosto che sull’umanesimo integrale gridato e ormai soffocato dalle tendenza materialiste individuali e collettive stranamente concordi negli anni iniziali del ventunesimo secolo. Una reazione al positivismo di stampo intimista rispetto al dilagare del materialismo elettronico, che Handke aveva già manifestato nei testi di altri film di Wenders, nel decennio fra il ‘78 e il ‘90, culminato nel film or ora citato. Le poesie come sottofondo della storia del film, predisposte per tratteggiare l’azione del personaggio all’interno della trama e di una nuova letteratura, evitando però di soffermarsi nella semplice scrittura, che veniva sostituita dall’opera cinematografica.

Dunque un libro a forma di film, nuovo genere di letteratura, dove il film è il luogo della poesia, una forma lirica che apriva nuovi orizzonti interpretativi del mondo. Handke così varò un’idea di vita come arte, in armonia alle scuole di Graz e di Vienna che nei primi anni ‘60 aveva frequentato. Scuole che avevano anticipato le proteste culturali del ‘68, spesso adoperando lo schema del collage, un mix di immagini reali e di poesie realistiche riprese dalle scuole della Nuova Oggettività sviluppatesi negli anni berlinesi della Repubblica di Weimar. Proprio la sceneggiatura del “Cielo”e della poesia di sottofondo, esprimeva questa nuova forma di linguaggio visivo della generazione letteraria di lingua tedesca nella Germania del dopoguerra, contro i tradizionali Bertolt Brecht e Heinrich Böll, analoga alle novità di un Günter Grass e di un Thomas Bernhard. Ma ciò che stupiva di tale operazione era il ritorno ad uno schema classico, che già Ingmar Bergman aveva stigmatizzato in un suo celebre film di quell’epoca, “Come in uno specchio” (1961). Si trattava della prima lettera di Paolo ai Corinzi: “Quando ero bambino, pensavo da bambino, capivo da bambino e vivevo da bambino. Ma ora che sono un uomo non faccio più cose da bambini”.

Ritornava così nel nuovo della cultura occidentale un tema assoluto della storia del pensiero fin dai Greci, il mutamente dell’essere verso il divenire, con il tormento dell’essere mai più autentico, come aveva preconizzato Nietzsche, aveva pregato Bergson e aveva promosso tutto il personalismo comunitario francese, già coevo di Handke e in qualche misura proclamava Heidegger nei bui anni successivi alla prima guerra mondiale. Solo che Handke rompe la tirannia della parole e inaugura la rivoluzione dell’immagine, ponendo nello spettro cinematografico il soggetto dell’angelo e che nelle prime battute del film ricorda di essere stato tale, ammettendo il proprio essere originale, adoperando due volte nello stesso verso “Kind Kind”, nonché ponendo all’inizio l’avverbio “als” e il verbo preterito, ma sempre ben prefissato nel tempo “war”, quasi che il poeta non si fosse limitato alla nostalgia del tempo passato, quanto si prefiggesse di ritornare a quell’età, l’infanzia come vera e autentica realtà da ricercare fino alla morte, anzi per diradarne l’evento ineluttabile. Non era memoria melanconica, un pianto per un passato mai più recuperabile , quanto piuttosto il tentativo possibile di una nuova vita da ritrovare e vivere, perché l’angelo Damien ha voluto cessare di osservare e ha preferito il quotidiano. Si trattava cioè di una poetica intimista dotata di una rara affabulazione che si inscriveva in una esistenzialismo metafisico e morale che reclamava nel mondo della tecnica – oggi in quello analogo dei computer – un ideale di purezza incontaminata di stampo neoromantico, già praticato da E.T.A. Hoffmann e dal Rilke .

Qualcuno direbbe che era “nulla sotto il sole”, visto che proprio lo spiritualismo filosofico lo aveva ripreso e riaffermato come si disse fin dall’epoca di inizio secolo. Le domande sulle ragioni dall’esistere, sulla natura del rapporto uomo/mondo e sulla purezza dell’infanzia, avevano avuto nel personalismo cristiano di un Marcel, nella concezione metafisica di Heidegger, oppure nell’umanista marxista di Bloch, un vario caleidoscopio di risposte, riflesse anche in un comunitarismo tangibile nelle costituzioni europee del secondo dopoguerra. Il più vicino alla costruzione di Handke – non immune fin dal primo periodo a un certo soggettivismo che lo ha di volta in volta visto accusare di essere un provocatore, una pop star, oppure un profeta – appare ai più Heidegger, quando appunto come un bambino si chiede, al pari del filosofo di Friburgo “perché questo è così è non è altro” frase riassuntiva della poesia di Handke e del pensiero esposto in “Che cosa è la metafisica”, dove venne abilmente delimitata la problematicità della vita quotidiana di noi uomini e donne dopo la caduta della scienza e della tecnica, quando l’incertezza del vivere convive ancora con le paure classiche dell’uomo malgrado le straordinarie scoperte degli ultimi due secoli. Heidegger rilevò la reale rottura fra pensiero e parola, cosa che ci spinge a ricercare una nuova etica.

Di qui, la ricerca dell’uomo più autentico, specialmente quando oggi è divenuto impossibile ritrovare il proprio essere fanciullo, ormai sepolto dal mito reale dell’onnipotenza del social network… Handke si pone quindi a decostruire questo e tanti altri miti odierni, proprio offrendoci una più vera metafisica dell’uomo, partendo dalla poesia ,come quella in esame, esprimendo piuttosto una realtà presente intesa come esito di un passato interiorizzato e aperto a un futuro da vivere paradossalmente come un bambino. Handke qui esterna il suo costante pensiero, che lo aveva visto nel 1966 salire sul palcoscenico per insultare il pubblico, non per rinfacciare i vizi dei singoli spettatori, che sarebbe stato un semplice rinvangare il loro passato di uomini rassegnati al loro destino nella opulenta Germania dell’ovest; quanto per spingerlo a deporre le loro vesti conformiste e a intraprendere in mano la loro vita e la società tedesca americanizzata. Lo aveva già fatto Rilke nel 1910 quando scrisse “i quaderni del pittore Malte Laurids Brigge”, in cui si invocavano le ragioni dell’Esistere all’origini dell’esistenzialismo imborghesito del primo dopoguerra. Ma lo aveva pure fatto il nostro Giovanni Pascoli che fece del “fanciullino” e del suo pianto, l’emblema dell’essere che è in lui e della morte che incombe inesorabilmente.

E perciò le riflessioni del nostro poeta che pertanto si consola con la poesia che lo immette nel mondo, consentendoci di sottrarci al destino di vanificazione e che ci riporta al quotidiano, sgombrando le sue nuvole, ridando senso alle nostre cose. Questo è il profetismo di Handke, dove il suo poetare – ma anche quello di insultare e difendere le brutture del mondo dal palcoscenico – che costituisce uno scudo contro la morte e la poesia diviene un dono sacro. Anzi, il metodo innovativo del “leggere vedendo”ci ricorda quell’infanzia felice dove la vita era nel fumetto e negli strani sogni e figure che ci permisero di conoscere da bambini e di parlare nel mondo. Del resto, il metodo di Derrida, altro grande filosofo contemporaneo di Handke, era quello di rileggere la realtà apparente, scoprendo il sale delle cose, immedesimandosi nell’animo delle cose che vede, quasi uno Sherlock Holmes dell’anima, o lo storico che rivive le vite degli altri, concetto non estraneo a un film recente sulla caduta del regime comunista della Germania dell’Est. Profetismo provocatorio dunque, che però non lo ha esentato dalle vaste critiche che lo hanno investito non appena è stato annunziata la premiazione del nobel per il 2019. Molti ritengono che il suo gigioneggiare, la sua evidente e marcata riluttanza ad essere inquadrato tra i suoi colleghi conformisti della parola, non solo lo ha portato ad essere un campione di isolamento nella sua beata torre d’avorio; ma addirittura di essere dai più famosi scrittori mondiali additato come un corifeo del genocidio, solo perché ha difeso l’indifendibile Milošević dalle accuse fondatissime di genocidio nella guerra civile jugoslava.

Come il suo contemporaneo Polanski, Handke è stato bollato come un arrogante intellettualoide cui revocare il premio conferito, anche per dare giustizia alle vittime di Srebrenica sterminata dal razzista jugoslavo. Anche per Handke vale il verso “perché c’è veramente il male e perché c’è gente veramente cattiva?”, che scrisse nella seconda strofa? Ma, aderendo alla tesi che lo giustifica separando l’uomo dall’artista, possiamo accettare anche la separazione dell’artista dal mondo reale? Come perdonare il passo falso di non chiedere almeno scusa?

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